Gay Pride, la battaglia per l'uguaglianza e la necessità di parteciparvi

di Ornella Esposito

di Ornella Esposito

ornella_esposito Mancano circa 24 ore e poi la grande festa del gay pride esploderà per le strade, vicoli e vicarielli della città accogliente per eccellenza: la bella e tormentata Partenope. È già record di adesioni. Gli organizzatori auspicano la presenza, come lo scorso anno, del Primo Cittadino e di molti altri suoi colleghi. Sarebbe un gesto coerente dopo l’importante passo in avanti che la giunta arancione ha fatto, attraverso l’istituzione del Registro delle Unioni Civili, verso il riconoscimento dell’uguaglianza e della parità dei diritti delle persone omosessuali.

Ma in piazza bisogna auspicare la presenza di tutta la cittadinanza, perché il gay pride è molto di più della manifestazione dell’orgoglio gay. È una sfilata per sancire il sacrosanto diritto ad essere (ed essere considerati) uguali gli uni agli altri. Non solo gay, lesbiche, tran gender uguali agli eterosessuali, ma anche persone di altre razze e culture uguali a noi. È una battaglia affinché tutti abbiano accesso alle medesime opportunità, dunque, una battaglia di tutti e per tutti. Infatti, le rivendicazioni del coordinamento, che raggruppa tantissime organizzazioni, sono anche quelle di volere “piani di investimenti per infrastrutture materiali ed immateriali, per la cultura ed il turismo come fonte di sviluppo territoriale e sociale,  per la formazione dei saperi e delle opportunità di auto impiego e di lotta alla precarietà”.

 

È chiaro che il tema dell’omosessualità è posto in primo piano. È necessario in un paese dove il pregiudizio omofobico e transfobico conduce dritto al pestaggio, come di recente è successo a Verbania e Roma. È necessario in un paese in cui i DICO si sono arenanti in Parlamento, e non rientrano nelle priorità di nessun governo. Figurarsi parlare di matrimoni gay che l’onorevole Rosy Bindi ha tenuto a specificare qualche settimana fa, non rientrano nella carta costituzionale. Ovviamente secondo lei.

Quella della Bindi è un’affermazione che manifesta l’insopportabile pensiero del considerare contro natura le unioni tra persone dello stesso sesso e, dunque, il non dover riconoscere loro dignità giuridica. La famiglia secondo natura è costituita da un uomo ed una donna. Viene da chiedersi, e da chiederle: “Ma nel Vangelo Gesù, non dice che siamo tutti uguali?”. Ed ancora: “Perché un omosessuale, una lesbica, un transgender, è diverso da me? Non ha anche lui/lei due braccia, due gambe, un cervello ed un cuore? E, dunque, perché non deve godere dei miei stessi diritti?”

In parziale soccorso, grazie a Dio, ci viene la sentenza della Corte di Cassazione del marzo scorso che dichiara: “la coppia omosessuale e’ “titolare del diritto alla vita famigliare” come qualsiasi altra coppia coniugata formata da marito e moglie [...]”.

La si potrebbe considerare una “prova tecnica” di uguaglianza.

Ed oggi parlare di uguaglianza in termini di parità dei diritti, ha ancora più senso. Le nostre società sono una “babele” di lingue, razze, culture, identità sessuali: non dare diritto di cittadinanza alle differenze, porta ad un inevitabile aumento delle diseguaglianze di cui, certo, non abbiamo bisogno. Ciò non vuol dire accettare tutto e tutti indiscriminatamente, scadendo in un relativismo culturale tout-court che rischia di diventare etnocentrico.

La partecipazione al gay pride napoletano di domani, ha un valore culturale, politico e civile enorme. Significa aderire all’idea che siamo e dobbiamo essere tutti uguali. Significa dare il proprio contributo per la costruzione di una convivenza civile più pacifica.