Paolo Furia a tutto campo: dall’antipolitica alla riforma del lavoro

di Lorenzo Quilici

Abbiamo intervistato Paolo Furia, segretario dei Giovani Democratici del Piemonte. (Lorenzo Quilici)

paolo_furia Come è nata la tua passione per la politica?
Vengo da una famiglia di origine operaia che si è sempre occupata di politica: alla sede del partito, nel sindacato, in amministrazione. Sicuramente il fatto di aver sempre ascoltato, a casa, i genitori ed i parenti discutere degli avvenimenti politici ed in generale dell’attualità ha posto le condizioni perché si verificasse il mio incontro personale con la politica, avvenuta negli anni del liceo e con il contributo di ragioni profondamente nuove. Quando frequentavo il liceo classico a Biella, infatti, le scuole superiori della città organizzavano delle settimane estive di volontariato a tempo pieno nei centri per i disabili, per i minori in difficoltà e nei centri estivi, per gli anziani ed in generale nel terzo settore. Grazie a queste esperienze, notevoli anche sotto il profilo dei rapporti umani, ho incominciato ad addentrarmi nel mondo del volontariato giovanile biellese, frequentando diversi progetti ed animando la mia partecipazione con domande di stampo politico: non solo “cosa posso fare io come volontario nel mio rapporto personale con l’anziano”, tipico esempio di domanda che il giovane volontario viene indotto a porsi, ma anche questioni come: “come funziona la casa di riposo? Perché non si punta di più ai servizi di domiciliarità per anziani che potrebbero tranquillamente vivere a casa propria? Quanto costa realizzare una città senza barriere architettoniche? Perché i ragazzi ed i bambini di quella periferia condividono quel determinato disagio sociale, o vi sono in ogni caso più esposti?”. Ero sempre più consapevole, però, che nel mondo del volontariato avrei trovato solo risposte parziali, nella loro efficacia e puntualità, alle domande che mi ponevo: si trattava in realtà di domande politiche, che necessitavano, almeno dal mio punto di vista, di una prospettiva il più possibile “sinottica”, di sistema, che tenesse insieme quante più variabili possibili entro una visione del mondo. Con questa ambiziosa aspettativa mi sono avvicinato ad un partito politico, dove ho incontrato altri ragazzi ed altre ragazze che ricercavano una politica alta, seria, profonda, che portavano, come me, nel partito la loro esperienza sociale e di vita e cercavano una nuova chiave di lettura e nuove risposte ai problemi incontrati nel proprio percorso.

Perché i giovani di oggi, al contrario di te, percepiscono la politica molto lontana dalla loro quotidianità?
Perché in troppi casi la politica (quella fatta dai partiti) non riesce ad essere all’altezza delle aspettative di cambiamento, di profondità e di qualità che i ragazzi hanno. Non lo è sempre nemmeno per me, beninteso. In troppi casi, le questioni di bottega, gli scontri di potere, le ambizioni personali e le distinzioni ottuse, quelle tra gruppuscoli che si reputano assolutamente alternativi sulla base di grandissimi ideali ed invece si assomigliano nel loro lottare per mere posizioni di potere emergono a discapito del bello della politica. Se un partito fosse un luogo di discussione, elaborazione comune, analisi di problemi e messa in comune di idee e di risorse per affrontarli e risolverli (o almeno provarci), sono convinto che molti giovani lo sceglierebbero. Se un partito si presentasse per gli ideali che ritiene importanti, e non solo per la faccia più o meno convincente o più o meno carismatica del suo leader, sono sicuro che molti giovani lo popolerebbero, come popolano i movimenti e le associazioni molto spesso come luoghi di adesione ad una lotta comune. Poi, certo, le cose sono più complicate e non sono mai stato dell’idea che si possano scaricare tutte le responsabilità della disaffezione per la politica all’interno di essa.. Resta pur sempre vero che i partiti sono esposti alla responsabilità di governare, di assumere delle scelte spesso pesanti e in molti casi di fatto impopolari: è più facile, per un partito, essere esposto alla critica, alla diffidenza, all’incomprensione dell’opinione pubblica. Aggiungo poi che per troppi anni, in Italia, la politica è stata trasformata, mediaticamente (e con responsabilità dei mass media), in una sorta di programma d’avanspettacolo, una soap opera con liti patetiche, veline, cantanti, toni da stadio. Penso che questo, lungi dall’avvicinare più giovani alla politica, abbia contribuito a diffondere una scarsa sensibilità civica diffusa, soprattutto tra i più giovani. Si è in parte perduto il sentimento che la politica è una cosa seria, che la democrazia si fonda sulla consapevolezza e sulla disponibilità all’impegno di ciascuno e che è necessario rimboccarsi le maniche per difendere le condizioni materiali e morali così faticosamente guadagnate dalle lotte dei nostri nonni.

Quali sono i tre concetti (idee, valori) che sono alla base del tuo impegno politico?
Lavoro è una delle parole fondamentali, un vero e proprio valore. Certo, nel senso più pieno del termine, lavoro vuol dire diritti nel lavoro, sicurezza sul luogo di lavoro, e ancora, realizzazione professionale, ritorno dell’economia dalla finanza alle condizioni materiali e produttive reali, possibilità di emancipazione delle sacche di povertà, occupazione di spazio pubblico da parte del cittadino, contributo all’innovazione ed all’arricchimento della comunità. Una società che lavora è una società che vive, che si muove verso il futuro, che scambia prodotti e cultura con le società vicine e lontane, che si prende cura di se stessa. Accanto al lavoro, a questo punto, metto coesione sociale. E’ la qualità delle relazioni sociali di una determinata società. Temo che questo nostro mondo renda il lavoro nient’altro che una variabile dipendente dall’economia finanziaria. Quello che doveva essere un mezzo per il miglioramento dell’economia al fine di distribuire meglio il benessere e migliorare la qualità della vita per tutti è diventato un modo per accumulare profitti esponenziali per pochi ai danni del lavoro (e dei diritti nel lavoro) e della socialità, che viene sempre più considerata un costo; proprio la socialità invece è il fine, è il bene pubblico per eccellenza: perché è nella socialità positiva, fatta di cultura, di valorizzazione del territorio, di situazioni ed eventi comunitari, di politiche per le famiglie e di sensibilizzazione civica e sociale, che si sviluppa il germoglio della felicità delle persone. Accanto a coesione sociale e lavoro, metto giustizia. Essa è una virtù suprema, oltre che la misura del valore delle istituzioni. La politica ha senso solo se persegue la giustizia nel trattamento delle problematiche poste dalle persone; le istituzioni devono essere giuste, pena il rapido declino della fiducia dei cittadini e l’implosione della politica democratica. Giustizia tra le persone non vuol dire: “tutti uguali identici”; vuol dire, semmai, “a ciascuno il suo”, secondo le ragioni e i torti, i meriti ed i demeriti, ma anche considerando le diversità (economiche, culturali) di situazioni di partenza, le diversità di bisogni di cui ciascuno è portatore. La giustizia porta con sé la fiducia, migliora la coesione sociale, motiva al lavoro ed all’impegno comune.

Quale è il tuo giudizio sulla riforma del mercato del lavoro - nella parte riguardante i giovani - attualmente in discussione alla Camera?
Premetto che non ritengo la riforma del mercato del lavoro determinante ai fini della risoluzione del problema vero di oggi in Italia ed in Europa: la creazione di lavoro. Per il massiccio spostamento di denaro (privato e pubblico) dagli investimenti produttivi in senso lato alla finanza, per le condizioni del commercio e della competitività internazionale e la rincorsa alla riduzione dei costi del lavoro, per gli squilibri indotti da una politica economica comunitaria troppo debole vista la presenza della moneta unica, e ancora, per i tempi troppo lunghi del pagamento delle commesse da parte degli enti pubblici, per una pressione fiscale impressionante e disordinata, per i tempi della giustizia civile, investire in produzione (di prodotti, di servizi, di opere di pubblica utilità) e creare occupazione è in Italia sempre più difficile. Ognuna delle cause della difficoltà di produrre in Italia ha alle sue spalle una storia complessa e non tutte sono aggredibili in termini di politica nazionale: questa è la prima grande questione, si deve riconoscere l’insufficienza della dimensione statale per la risoluzione dei grandi squilibri economici in cui viviamo. E tuttavia, le cause che ho citato ci dicono che non è in primo luogo sul terreno del mercato del lavoro che sarebbe stato opportuno intervenire, ma su quello, più complicato proprio per la sua dimensione in parte sovranazionale, della crescita, dello sviluppo e del modello di sviluppo da improntare alla ripresa. La legge attualmente in vigore (cosiddetta “Biagi”) ha favorito un deterioramento della qualità del lavoro ed una precarizzazione spinta delle sue forme, scommettendo sul fatto che un alleggerimento fiscale, economico ed in termini di minore sicurezza (salariale, contributiva ed in ammortizzatori sociali) avrebbe determinato maggiori investimenti e, di conseguenza, più occupazione. In verità, una flessibilità troppo spinta ha in molti casi favorito profitti facili a fronte di un indecoroso risparmio sul capitale umano, una sottovalutazione delle competenze, pure diffuse in particolare tra i giovani, una perdita in termini di innovazione e qualità (per le quali un lavoro più sicuro e con prospettive di crescita e miglioramento della propria posizione è una condizione); inoltre, non ha minimamente impedito l’aggravarsi della crisi economica, che si conferma essere determinata in prima istanza da ben altri fattori, rispetto a quelli di un mercato del lavoro troppo tutelato. Se di una riforma del mercato del lavoro avevamo bisogno, era per rimuovere alcune distorsioni legate alla legge attualmente in vigore. Saluto con favore alcuni provvedimenti orientati in questo senso: infatti, saranno meglio controllati gli usi di contratti quali quello a progetto, si danno criteri più severi per individuare le “finte partite iva”, si va nella direzione di un reddito minimo anche per i contratti flessibili (invero, il più importante dei provvedimenti, poiché all’aumento della contribuzione per questo tipo di contratti, cosa positiva di per sé, troppo forte sarebbe stato il rischio di una riduzione della busta paga del lavoratore), si potenzia l’apprendistato. Resto convintissimo che non sia possibile affrontare una riforma del genere senza risolvere efficacemente la questione degli ammortizzatori sociali, per ora senza una prospettiva di copertura sicura. Il modello della flex security, cui questa riforma sembra ispirata, è certo un modello più compiuto rispetto alla cattiva flessibilità che abbiamo vissuto fino ad oggi in Italia; e tuttavia necessita di una quantità di investimenti, pubblici e privati, che non sembrano oggi nelle disponibilità.