You(th) Stand Up! Intervista a Guido Spaccaforno di AIM

di Giuseppe Meccariello

Autovalutazione delle competenze attraverso le tecniche del role playing: la presentazione dell’Output 2 del progetto sullo YouthWork

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Nell’ambito della due giorni tenutasi a giugno a Cipro, ServizioCivileMagazine ha intervistato i rappresentanti delle associazioni partner di You(th) Stand Up!, progetto finanziato da Agenzia Nazionale Giovani e parte del Programma Erasmus plus – azione chiave 2 – sviluppo di innovazione. In questo articolo, il rappresentante di AIM Guido Spaccaforno ci descrive l’Output 2 del progetto, di cui è responsabile l’associazione che ha sede in Belgio.

1) AIM è coinvolta direttamente nella realizzazione dell’O2: ci può dire di cosa si tratta?

La nostra organizzazione ha proposto uno strumento finalizzato all’autovalutazione di alcune competenze strategiche su cui si focalizza l’Educational Training Model di You(th) Stand Up. In particolare lo “You(th) Stand Up Competence Assessment” è uno strumento di autovalutazione delle competenze che, basandosi sulle tecniche del role playing, consente di osservare comportamenti e permette ai giovani coinvolti di testare le loro risposte nel momento in cui si trovano in una determinata situazione o devono gestire un conflitto. Al centro del processo di autovalutazione c’è quindi la consapevolezza sulle capacità e quanto queste siano pronte per essere spese nel mondo del lavoro. Ci troviamo in ambiente non formale e l’obiettivo chiave di tali esercizi è rivedere quali competenze emergono e quanto un certo atteggiamento combacia con quelli richiesti dal ruolo dello youth worker. Quindi, le dinamiche che si sviluppano durante il gioco di ruolo, avranno una correlazione diretta con la familiarità dei partecipanti con le competenze e i comportamenti richiesti ad uno youth worker. Nel nostro caso ci riferiamo a quattro delle principali competenze di uno youth worker, che sono: Team working, Mindset imprenditoriale, Abilità comunicative e di Decision making.

2) Come si inserisce il modello promosso nello studio sull’educazione non formale e della self-evaluation e quali sono le sue potenzialità?

Siamo sicuramente all’interno di una visione dell’auto-valutazione come procedura che aiuta la costruzione, non solo di prodotti attesi (come le competenze), ma anche dell’immagine di chi sta costruendo la propria identità di persona impegnata nel processo di apprendimento.

Una parola composta come “auto-valutazione” ci ricorda in primo luogo che siamo nell’ambito, complesso e a volte sofferto, della valutazione, ma ci invita subito anche a considerare la varietà delle modalità possibili in questo ambito: dall’etero-valutazione “pura”, prerogativa esclusiva dell’insegnante o dell’esaminatore, alla co-valutazione, che introduce una dimensione di socializzazione di questa esperienza con altri (ad esempio, i compagni, ma anche l’insegnante stesso), fino all’auto-valutazione individuale. Si tratta naturalmente di modalità che non sono in linea di principio alternative o in competizione tra loro, e che potrebbero (dovrebbero) integrarsi. Come si dice in questi casi, “il condizionale è d’obbligo” in tempi in cui le certificazioni, spesso esterne alla scuola, tendono ad escludere o a sminuire il contributo della persona valutata dalla partecipazione al processo valutativo.

 Al contrario, il prefisso auto- nel termine “auto-valutazione” rimanda al ruolo centrale che può e deve svolgere chi impara. In questa ottica occorre sgombrare subito il campo da un possibile equivoco: l’autovalutazione non implica necessariamente auto-referenzialità, cioè chiusura entro dei parametri di giudizio personali e avulsi dalla realtà. Certamente autovalutarsi comporta sempre una percezione di competenza, cioè un giudizio soggettivo, e proprio per questo una delle sfide più impegnative consiste nello sforzo di assicurare anche alle modalità di autovalutazione quei livelli di qualità, così difficili da assicurare, che dovrebbero essere comuni a tutte le operazioni valutative, e cioè validità, affidabilità, trasparenza e condivisione.

Utilizzare tecniche esperienziali, come il role playing, risulta essere molto stimolante in quanto oltre ai tradizionali questionari di autovalutazione delle conoscenze, tali tecniche offrono la possibilità di mettere in pratica ed osservare in modo interattivo alcune competenze in particolare quelle relazionali. Le competenze vengono suggerite maieuticamente dalla messa in situazione che, con appositi stimoli del trainer attraverso input adeguati, avrà lo scopo di far emergere le potenzialità dei giovani coinvolti orientando e sfruttando le dinamiche che si evocano durante la sua realizzazione.

In particolare il role playing consiste nell'esame, quasi sempre in gruppi, ma qualche volta anche individuale, in una data situazione sociale e nella successiva simulazione da parte di alcuni componenti del gruppo, delle relazioni sociali previste e rese necessarie dal caso stesso. Essendo un metodo basato sulla simulazione di un evento, che presuppone il coinvolgimento dei partecipanti, chiamati a immedesimarsi e a vestire i panni di altri e a ipotizzare soluzioni, il role playing è considerato un metodo attivo e acquista importanza nella formazione dell’adulto in quanto è una tecnica che valorizza l’esperienza dei presenti.

Esso trova la sua collocazione in vari momenti del processo formativo, proprio per la sua duplice possibilità di coinvolgere il gruppo attorno ad un tema centrale e di permettere al tempo stesso un apprendimento emotivo individualizzato per ogni partecipante. L'azione e l'analisi del vissuto favoriranno importanti insight in ogni partecipante, individuali e di gruppo. L’insight di gruppo condurrà alla riformulazione del problema da cui ha preso le mosse il gioco di ruolo.

3) Il 5 e il 6 giugno a Cipro si è tenuto lo Steering Committee di Youth Stand Up: com’è andato e quali sono le tue aspettative in vista del multiplier event fissato per il mese di novembre?

L’ultimo steering committee svoltosi a Nicosia è stato un momento di analisi sul lavoro svolto ed ha generato ispirazione per il seguito. Ne è scaturita inoltre una riflessione sull’impatto sia del modello educativo sia dello strumento di auto-valutazione proposti e quanto gli stessi fossero in linea con un approccio per competenze.

E proprio parlando di approcci per competenze, riteniamo che l’autovalutazione assuma un ruolo ancora più particolare e definito. È ormai ampiamente riconosciuto che “le competenze non coincidono con le abilità e le conoscenze, che comunque devono essere padroneggiate, ma rappresentano sostanzialmente le modalità di impiego di quelle abilità e di quelle conoscenze in contesti nuovi” (Domenici 1999). In altre parole, essere competenti significa, tra l’altro, saper trasferire quello che è stato appreso in situazione di formazione ad altri contesti, anche non formali e informali:  richiede dunque di saper riconoscere la somiglianza e la diversità dei compiti e dei contesti per poter attivare il transfer delle conoscenze e delle abilità acquisite. Un giovane che costruisce il suo apprendimento, e che lo voglia fare in una prospettiva di possibile auto-apprendimento lungo tutto l’arco della vita, non può fare a meno di questa forte componente metacognitiva, perché qui è in gioco proprio il suo saper apprendere, cioè l’imparare a imparare di cui tanto si parla. Ma competenti nel saper apprendere non si nasce, solitamente lo si diventa: per questo forse è possibile considerare l’autovalutazione come una vera e propria competenza da costruire.

Questa sarà appunto la riflessione che intendiamo approfondire in vista del multiplier event che sarà realizzato a Bruxelles il prossimo novembre.