Voci da un Afghanistan clandestino

di Chiara Matteazzi

Al di là delle prese di posizione politiche, al di là dei preconcetti e delle congetture delle quali spesso si cade vittima, dobbiamo chiederci, in tutta onestà: cos’è cambiato per la popolazione afghana da quel fatidico 2001? (Chiara Matteazzi

1119546141

Sì, Afghanistan. Ancora. L’ennesimo articolo sui tragici eventi di questi giorni, ma poi qualcosa è, diciamo così, andato storto. Cosa dire? Quale posizione prendere in merito ad un conflitto che dura da nove anni, e di cui riceviamo solo notizie lontane e frammentarie? Sul web si ci imbatte in racconti di chi le idee ce le ha chiare, ma manca dei mezzi per farsi sentire.

Sono tanti i nomi: Roya, Meena, Yalda, e molti altri afghani che ogni giorno urlano silenziosamente il loro dolore, nascosti da un burqa, dal frastuono di bombardamenti non così lontani, o semplicemente dal peso di una condizione che opprime questo Paese da troppi anni.

Roya, Meena, Yalda. Sono nomi di fantasia, certo, ma non lo sono le loro storie. O le loro poesie, o i loro racconti.

Perché in questa terra a noi ancora sconosciuta, c’è chi trova il coraggio, la forza e il modo di raccontare se stesso, regalando ad attenti ascoltatori la possibilità di conoscere un pezzetto di Afghanistan autentico, “clandestino” quasi, che vale certamente molto di più di quei resoconti diplomatici a cui siamo abituati. 

Roya è una giovane donna afghana che in poche righe, pubblicate in un blog ideato da una scrittrice americana, www.awwproject.org , racconta cosa sia la vita per lei. Da una parte il suo quotidiano, speso interamente nella kitchen, come il titolo della sua poesia; dall’altra i suoi sogni, affini a qualsiasi sua coetanea occidentale: andare a scuola, studiare, magari avere una bella borsa.

Ma non c’è spazio per questo nella sua terra, non c’è posto per i sogni, né per i sognatori. Neanche la vista della luna sa confortarla, forse è troppo stanca, forse non vuole lasciarsi andare per evitare di illudersi. Dopotutto, “I am an afghan woman”, scrive Roya nell’ultimo verso della sua poesia, chiudendo ogni spiraglio, e qualsiasi barlume di speranza. Meena invece, nella sua poesia intitolata emblematicamente “Have we forgotten?”, si pone molte domande. Le pone al suo popolo, ma sono domande sulle quali ciascuno di noi dovrebbe interrogarsi.

Meena non parla di guerra, né di talebani, né di bombe, né di forze armate internazionali. Chiede semplicemente perché, ad un certo punto, sia passato in secondo piano quella che è l’anima del suo Paese, ossia i suoi bambini, le sue madri, la sua gente. Affamati, disperati, feriti nel corpo e nello spirito. Perché non si vuol vedere? Perché si continua su questa strada di morte e disperazione? 

Già, perché? La partecipazione al conflitto da parte della comunità internazionale estende la portata di questo interrogativo, lo fa andare lontano, ben oltre i confini afghani. È ora di rimettere in discussione scelte passate, e di rivedere il conflitto con un maturo senno di poi, alla luce dei lunghi anni alle nostre spalle.

E il criterio dal quale partire deve essere la popolazione civile, la sua tutela e salvaguardia. Al di là delle prese di posizione politiche, al di là dei preconcetti e delle congetture delle quali spesso si cade vittima, dobbiamo chiederci, in tutta onestà: cos’è cambiato per la popolazione afghana da quel fatidico 2001?

E cerchiamo di rispondere in modo veritiero, anche se questo potrebbe significare ammettere di aver sbagliato. È giunto il momento di fare una doverosa autocritica, e di imparare dagli errori commessi. È tempo di riportare il dibattito sulle questioni più delicate, quelle scomode, certo, ma le sole che dovrebbero essere prese come campione di valutazione nella considerazione di scelte future. 

Meena, non so se abbiamo dimenticato. Non so se ti abbiamo dimenticata. Non so neppure se ti abbiamo mai veramente conosciuta. Quello che so è che non puoi studiare, né vivere liberamente. Quello che so è che questo conflitto è stato l’ennesimo di una lunga lista; quello che so è che intorno a te vedi bambini affamati e madri che seppelliscono i propri figli. Lo so perché lo hai scritto tu stessa.

E come te moltre altre persone, tra cui un’altra donna afghana, anonima, che nello stesso blog scrive: “Dite che volete aiutarmi, ma non potete farlo, perché solo io sono qui. Vedo le mucche dalla finestra: loro vanno fuori, io non posso. Se lo facessi i Taliban mi ucciderebbero. E nessuno si chiederebbe perché”. 

Cos’è cambiato dal 2001? A voi l’ardua sentenza. Con una sola postilla: queste parole sono state scritte nel 2010.