Napoli. Herta Muller: “Porterò il mare via con me”
Nel giorno della morte di Jose Saramago un altro premio Nobel regala a questa città un po’ del suo straordinario talento. (Vinicio Marchetti)
Hanno mentito. Si era detto che venerdì 18 giugno, alla Feltrinelli, il premio Nobel 2009 per la letteratura, Herta Muller, avrebbe presentato il suo romanzo capolavoro “L’altalena del respiro”. Non è andata esattamente così. Nell’auditorium della libreria di Piazza dei Martiri si è potuto assistere ad una sublime amalgama tra poesia e teatro.
Le immagini create dalla penna della Muller hanno trasportato i presenti nell’orrore del lager e la meravigliosa interpretazione recitativa di Fabio Cocifoglia ha reso tangibile ciò a cui stavamo assistendo. E nell’Altalena del respiro un fazzoletto bianco perde il suo valore di semplice oggetto per diventare il lontanissimo percorso che separa una madre da suo figlio rinchiuso in un campo di lavoro forzato.
Ed è stata proprio questa sovrabbondanza di immagini sognate che ha permesso ad Herta Muller di essere insignita del massimo riconoscimento letterario mondiale. Proprio nel giorno della morte di un altro immenso premio Nobel, Jose Saramago, Napoli accoglie una sua degna erede. Una scrittrice che ha fatto delle sue malinconiche parole un urlo di dignità. E, citando un verso della sua opera, non si piange mai quando si hanno troppi motivi per farlo.
Abbiamo posto alla scrittrice alcune domande. Herta Muller, come è nato il romanzo? “Nasce dal desiderio di diffondere la verità sulle deportazioni avvenute in Romania. Il regime di Ceausescu non consentiva di parlare degli uomini relegati nei campi di lavoro forzato russi. La prima persona che ebbe il coraggio di parlarne fu Oskar Pastior, uno dei più grandi letterati del 900. Per anni abbiamo lavorato assieme. Tra di noi c’era una profonda amicizia. Poi, improvvisamente, è venuto a mancare. Allora, anche se con il suo ricordo nel cuore, mi sono ritrovata a scrivere questo libro da sola”.
Il protagonista de “L’altalena del respiro è Leo Auberg. Chi è questo diciassettenne? “Ovviamente la prima persona a cui mi sono ispirata è Oskar Pastior. Entrambi sono omosessuali. E l’atroce difficoltà di vivere con il terrore di ritorsioni, sia da parte delle guardie che degli altri deportati, mi è stata insegnata da Oskar. Ma in Leo ho raccolto molte storie. A cominciare da quella di mia madre”.
La poesia di cui è pregna la sua opera, racconta di nostalgia e dolore. Quanto di tutto questo è autobiografico? “Molto. Ho una profonda nostalgia della Romania. Dei suoi paesaggi e delle sue immagini. Come nei campi di lavoro forzato l’angelo della fame era sempre presente, nei miei ricordi la nostalgia lo è allo stesso modo. Oskar Pastior ha aperto la mia mente. Mi preme di precisare un’ultima cosa: io racconto dei campi di lavoro forzato, non dei campi di concentramento come faceva Primo Levi. C’è una grande differenza. La mia non è altro che una piccola storia”.
E di Napoli avrà nostalgia? “E’ la seconda volta che vengo. La prima fu 13 anni fa. Porterò via con me il mare”.