Marco Baliani. “Ho cavalcato in groppa ad una sedia”: un libro per raccontare oltre vent’anni di carriera

di Anna Laudati

Incontriamo Marco Baliani, attore, autore e regista che con lo spettacolo Kohlhaas ha inventato il teatro di narrazione, un genere tutto italiano di cui è tutt’oggi uno dei massimi esponenti insieme a Marco Paolini e Laura Curino (Paola Pepe) 

baliani

Non avrebbe potuto scegliere titolo migliore per sintetizzare il senso del suo lavoro Marco Baliani, svelato fra le pagine del volume Ho cavalcato in groppa ad una sedia edito da Titivillus, per la collana Altre Visioni, presentato ieri a Lecce presso i Cantieri Teatrali Koreja. Una sorta di autobiografia artistica nella quale Baliani, attore, autore e regista, maestro di quello che viene definito teatro di narrazione, tira le somme di ventun’anni di carriera.

L’idea di essere solo in scena, racconta, è nata da un puro piacere. L’inizio di tutto, 400 ragazzini difficili della periferia romana, un numero inaspettato, difficile da gestire.

"Sono bambini che non riescono a concentrarsi su una cosa, anche la più bella del mondo, per più di sette minuti" lo avevano avvisato i pedagogisti. Così, in un’afosissima giornata d’estate, si era ritrovato seduto sulla fontana di Villa Lazzaroni a raccontare la fiaba di Biancaneve, con un risultato a dir poco disastroso. Poteva essere un problema di ritmo o di una pausa, ricorda. Proprio lì, in quella situazione d’emergenza, aveva cominciato a lavorare sul racconto: non è il contenuto, dunque, a garantirne la riuscita, ma il modo in cui questo avviene.

Già durante gli anni ’70, quelli dell’università a Roma e dell’impegno politico, un giovanissimo Marco raccontava le sue storie senza però aver elaborato una pratica. Ecco, oggi definisce la sua esperienza, un farsi nella pratica.

Sottolinea che per il suo teatro non ama la definizione di teatro civile, diventato quasi di moda, perchè ciò presupporrebbe l’esistenza di un teatro incivile. La contemporaneità è per lui, una forma di percezione del mondo, lo stare all’erta per cogliere il quotidiano. Il suo esercizio prima di andare a dormire, confessa, è ricordare le dieci cose più importanti della giornata.

Negli anni ‘80 inizia anche a lavorare a quello che sarebbe diventato il suo spettacolo per eccellenza, costruito secondo regole rigidissime: un celebre racconto di Kleist, Michael Kohlhaas. Nello spazio vuoto, alla luce di un faretto, l’attore-narratore, vestito di nero, resta su una sedia per un’ora e venti a raccontare una vicenda che ruota intorno alla giustizia negata. Non esiste scenografia. Solo la possibilità di modulare i gesti e la voce. Dal 1988, Baliani ha portato in giro Kohlhaas per anni con centinaia di repliche. Quella di Lecce del 9 aprile sarà la numero 945.

Kohlhaas è un esercizio estremo e formidabile, che permette di affinare gli aspetti tecnici della narrazione, un’arte con le sue regole e la sua retorica. Solo per fare un esempio, è lavorando con il puparo Mimmo Cuticchio, che Baliani capisce "come dare il ritmo col respiro e col battito del piede". E Kholhaas, infatti, è pieno di scansioni temporali, è una sorta di concerto con diversi cambiamenti ritmici stratificati che creano lo shock percettivo nello spettatore.

Accanto alla pratica scenica, poi, s’impone una riflessione sulle implicazioni teoriche di questa sua ricerca sulla narrazione, per risalire alle radici. Sembra incredibile ma la capacità di narrare, sostiene, è inscritta nel DNA. Attraverso i suoi numerosi spettacoli, la figura del narratore viene progressivamente definendosi. Un narratore, spiega ancora, è qualcosa di diverso da un interprete.

Il narratore si mette in gioco in prima persona anche se la narrazione non è mai una creazione puramente individuale, anzi. Mentre narra, l’attore è via via tutti i suoi personaggi: passa di continuo dall’uno all’altro ed è proprio questo a determinare la struttura del racconto, il suo ritmo, il suo procedere per divagazioni. Il racconto si arricchisce e cambia, coglie gli stimoli e le reazioni che arrivano dal pubblico e spesso le ingloba nel racconto. La sua dimensione è quella orale, dell’incontro tra il narratore e i suoi ascoltatori.

Fra i suoi spettacoli, alcuni più dolorosi altri più divertenti, TRACCE, tratto dal testo del filosofo tedesco Ernst Bloch è fra quelli a cui è più affezionato “[…] uno spettacolo che prende forma nel momento in cui lo vivo sulla scena, si modifica in ogni recita e vive di tutto quello che mi circonda, dalle emozioni di un luogo all’umore del pubblico…non è fiaba, non è storia, penso sia la mappa dell’arte di narrare[…]”

A mio padre che mi ha insegnato a volare, si legge nell’introduzione del libro.