Università italiane. Si registrano le prime occupazioni
Intervista a Federico Simonetti, uno dei coordinatori della protesta che da oltre due mesi si sta svolgendo nella facoltà di Lettere e Filosofia dell’ Università Federico II. ‘Chiediamo che studenti, docenti, ricercatori e lavoratori dell'università partecipino uniti, al dibattito’ (di Giuseppina Ascione)
Nelle ultime ore il clima negli atenei italiani si fa sempre più caldo. Continuano i vari sit-in, le manifestazioni e si registrano anche le prime occupazioni. A Roma dalla Sapienza è partito un corteo di studenti diretto verso il ministero dell'Economia. Ma nonostante l’affluenza che si sta registrando, i ragazzi appaiono molto sfiduciati per il quadro attuale della situazione, hanno voglia di cambiare, rivendicano il diritto per uno studio a 360 gradi, che non è solo quello in aula, e la necessità di una Università più vivibile.
Quando è partita la protesta a Napoli? Come vi state muovendo? La protesta è partita da una serie di discorsi informali ed assemblee che si sono svolte tra filosofia e psicologia nel tentativo di capire cosa effettivamente stesse succedendo. Già dall'inizio l'atmosfera di preoccupazione e di tensione era alta: a giugno avevamo avuto la notizia della chiusura dei canali d'accesso all'insegnamento (le SICSI) ed adesso ci arrivava la notizia di 87.000 licenziamenti nella scuola. In più un miliardo e mezzo in meno di finanziamenti nel corso di tre anni... erano numeri preoccupanti e noi eravamo già preoccupati. Abbiamo deciso di cominciare con un'assemblea pubblica, il 22 settembre, nella quale convocare tutti coloro che ritenevano giusto starci dentro: sono venute più di 200 persone ed abbiamo deciso di trasformare quel momento in un'assemblea permanente. È passato un mese ed abbiamo fatto altre assemblee, alcuni cortei autorganizzati, ormai tutta la facoltà sa di cosa stiamo parlando, dove siamo e cosa facciamo e molte persone hanno deciso di mobilitarsi insieme a noi. Nel corso delle mobilitazioni abbiamo fatto un felice incontro con gli studenti medi, che non abbiamo più lasciato e coi quali ormai facciamo fronte unico. Ieri, 21 ottobre, il nostro corteo ha scelto di riprendersi la città, di attraversare il centro, Via Roma, e di dare un segnale. I nostri organi istituzionali, a cui continuiamo a rivolgerci perché la protesta si mostri unitaria, sembrano sordi, soprattutto a livello d'ateneo. Noi proseguiremo sulla strada della sedimentazione, perché gli anni a venire saranno sempre più duri.
Quali atenei partecipano? Quali Facoltà? Per ora le realtà più presenti sono l'assemblea permanente di Lettere e Filosofia della Federico II, di cui faccio parte, l'assemblea Stop Gelmini dell'Orientale e la facoltà di Scienze Politiche della Federico II oltre ovviamente ad una serie di incredibili studenti delle scuole superiori che ogni giorno fanno il diavolo a quattro contro questo decreto: hanno entusiasmo da vendere e spesso ci danno la forza di continuare. Non siamo realtà periferiche e tentiamo tutti i giorni, pur con mille differenze, di fare fronte unificato per portare avanti la lotta. Nel frattempo l'aggregazione cresce: alcuni nuclei si stanno sviluppando a giurisprudenza e sociologia, mentre Montesantangelo comincia a lavorare bene. Diciamo che, almeno a livello di Federico II, l'assemblea permanente di Lettere svolge il ruolo di collettore, di server - se mi si passa il linguaggio "informatico" - per il movimento.
Che percezione hai della partecipazione ad assemblee e cortei? La partecipazione è buona, gli studenti ci sono: pensare anche solo un anno fa ad un corteo autorganizzato di studenti, messo su da un momento all'altro, che fosse capace di occupare un rettorato (come avvenuto il 15 ottobre), era da ridere. Certo, se facessimo un paragone con altre epoche, risulterebbe impietoso. Eppure noi non siamo qui per ripetere niente. Siamo qui per creare un nuovo soggetto, da zero. Perché siamo una generazione che non ha memoria storica né delle battaglie vinte né di quelle perse. E dove non c'è niente si può sempre lavorare perché nasca qualcosa di nuovo e di migliore. E poi gli studenti che ci sono non sono le solite facce di movimento, quelli che ti ritrovi ad ogni assemblea ogni volta. Sono studenti nuovi, carichi, di quelli che fino ad un po' di tempo fa ti trovavi scocciati, sui muretti a mangiare il panino tra un corso e l'altro, apatici magari. Ora hanno voglia di fare, d'impegnarsi, di prendere in mano il loro destino senza aspettare che venga loro calato dall'alto. Sappiamo bene tutti che questo non è un attacco all'università, ma a tutto il sistema cultura, a tutto il settore: dall'asilo alle scuole superiori, passando per il "maestro unico" alle elementari.
Siete in contatto con altri atenei di città Italiane? Sì, ci sono varie reti con le quali collaboriamo: da Siena (che è un po' un collettore della lotta a livello nazionale) a Roma, passando per Milano e Palermo, i nostri contatti e relazioni passano nel 90% dei casi via internet. Ora stiamo lavorando ad un incontro nazionale, speriamo a Napoli, sull'argomento. Sarebbe cruciale per capire da che parte andare e come fondare, al di là del no alla Gelmini - che di per sé ha un valore episodico - un altro modo di fare università.
Cosa pensi dei giovani picchiati a Milano? Pensi ci saranno reazioni, quali e in che tempi? Penso che le forze dell'ordine ricevono ordini, appunto. Non sono di quelli che se la prende a prescindere contro polizia e carabinieri (per quanto ne avrei qualcuna da raccontare...), ma è un dato di fatto che il clima di violenza in questo paese: la violenza e tracotanza con la quale i governi (di centrodestra e di centrosinistra, senza falsi moralismi) hanno attaccato e continuano ad attaccare la cittadinanza a tutti i livelli, la sparizione dell'opinione pubblica e del della possibilità di dissenso è inquietante. Occupare una stazione è certamente un gesto radicale, ma bisogna capire che l'università non è qualcosa di completamente staccato ed avulso dal resto della città o del Paese: stanno scippando il futuro ad un'intera generazione ed abbiamo tutto il diritto di bloccare tutto. Poi mi devono spiegare perché gli studenti si possono menare ed i camionsti no: loro l'autostrada l'hanno bloccata, noi manco le stazioni. Non credo che sia sbagliato essere conflittuali, ma penso che la reazione dei ragazzi milanesi dovrà essere ben calibrata: è evidente che la classe dirigente (politica, ma anche aziendale) abbia tutto l'interesse a bloccarci con tutti i mezzi a sua disposizione. Tentiamo almeno di portare a casa la pelle senza fare troppi colpi di testa.
Cosa proponete? Proponiamo un'altra università possibile. Un'autonomia che non rappresenti una feudalizzazione del sistema, una delega in bianco all'aggressione dei privati. Un'università dove si venga per studiare, certo, ma non per seguire soltanto dei corsi, come si fosse davanti ad un televisore. Il sapere dev'essere gratuito e pubblico: il che non significa che dev'essere gratis. La logica dell'inflazione non funziona col sapere, ad inflazionare il titolo di studio è stato un progetto di smantellamento chirurgico (Zecchino-Berlinguer prima e Moratti poi) che, attraverso il meccanismo del credito, ha reso impossibile la didattica e l'apprendimento, spezzettandoli in unità di tempo invivibili ed improduttive. Noi chiediamo che quel sistema se ne torni al mittente. Chiediamo un abbassamento della soglia esistente tra docenza e discenza, in modo che la conoscenza ed il sapere vengano prodotte di concerto: sappiamo che i docenti sono essenziali nell'apprendimento e nella comunicazione del sapere, ma non crediamo che siano gli unici depositari della conoscenza. Chiediamo che i bilanci delle università siano aperti e trasparenti, vogliamo sapere cosa viene deciso e quanto viene speso dei soldi di tutti. Chiediamo che si faccia ricerca e che questa non sia ad appannaggio dei privati: che essi siano i docenti che fanno uso privato del pubblico o le aziende (a capitale pubblico o privato che sia) non ci interessa. L'università è e deve restare un'istituzione al servizio di tutti e non un servizio per chi se la può permettere.
Lancia un appello. Una delle cose che vorremmo è che tutti gli studenti, docenti, ricercatori e lavoratori dell'università partecipassero al dibattito. Ci interessa molto capire cosa si pensa intorno all'università, se si ritiene giusta o meno la nostra lotta, se si pensa che i nostri metodi siano sbagliati e perché. Le critiche che sentiamo, spesso e volentieri sono dette sottovoce, di sfuggita, addirittura ce le scrivono sui muri dopo esserci venuti a salutare con un sorriso. Questo è un grosso problema del nostro Paese e della nostra epoca: si è perso il coraggio per il pensiero ed il coraggio nel dissenso, nel dire che qualcosa per noi è inaccettabile o semplicemente sbagliato. Noi non siamo partiti dalla negazione dell'esistente o dall'evitare ciò che è sbagliato. Noi siamo partiti dall'università che vogliamo perché la riteniamo giusta. E riteniamo giusto combattere perché quell'università si realizzi: oggi uno degli ostacoli maggiori è questa serie di provvedimenti assurdi che demoliscono tutto il sistema pedagogico italiano, ed il nostro primo (ma non ultimo) obiettivo è che venga ritirato. Ma senza chi l'università la vive, sarebbe ridicolo pensare un'università diversa. Perciò il mio appello è di essere coraggiosi, perché ci vuole una grossa dose di coraggio ad uscire dalla propria nicchia privata, lo so. Eppure fuori c'è un mondo di potenzialità - alcune rischiose, lo ammetto - che vale la pena cogliere. O combattere per poterle cogliere.