Poca innovazione nelle Università italiane

di Anna Laudati

Eppure esistono alcune realtà in Italia che si stanno attivano contro la fuga dei cervelli (di Andrea Sottero)

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L’innovazione è uno dei motori principali dell’economia, soprattutto se si guarda al lungo periodo. L’Italia, da questo punto di vista, non promette nulla di buono: pervasa da un substrato di imprese medio piccole, per lo più senza i mezzi (e gli stimoli) per investire in ricerca e sviluppo, e caratterizzata da una spesa pubblica nel settore che costituisce una percentuale irrisoria del PIL, si colloca agli ultimi posti tra i Paesi sviluppati e, soprattutto, rischia di perdere di anno in anno posizioni tra i Paesi più tecnologicamente.

Ci troviamo, così, nella sgradevole situazione di sentire il Rettore dell’Università di Bologna, da sempre simbolo dell’eccellenza accademica italiana, dirsi soddisfatto che nella classifica delle migliori università al mondo (fonte: Times Higher Education), l’Alma Mater rimanga tra le prime 200, nonostante il balzo dal 173° al 192° posto rispetto all’anno scorso.avanzati.Visto che la tendenza a scendere nella classifica -i dati storici ce lo dimostrano- non sembra essere un fenomeno passeggero, viene da chiedersi: “E il prossimo anno? E tra 10 anni? Dove sarà collocata il fiore all’occhiello delle università italiane?”.

Rincuora, dunque, quando qua e là sul territorio si scoprono iniziative della pubblica amministrazione che vanno contro la tendenza. 

Ottobre, da questo punto di vista, è stato un mese importante: prima è stata la volta della Regione Lombardia, che ha siglato un accordo con il CNR (Centro Nazionale Ricerche). Vi si prevede il finanziamento di 4  progetti di ricerca triennali destinati ai giovani, attraverso il conferimento di 64 contratti a tempo determinato, 43 assegni di ricerca, 5 dottorati e 30 borse master in “Ricerca Industriale”, per un totale di 142 posti disponibili. “Mind in Italy”, questo il nome dell’iniziativa, vuole essere un segnale concreto contro la famosa “fuga dei cervelli” che opprime l’Italia.

Fuga, a dire il vero, che sarebbe a dir poco positiva se quegli stessi cervelli espatriati decidessero poi di tornare, e se, allo stesso tempo, l’onda in uscita venisse compensata da un flusso altrettanto numeroso (e qualificato!) di studiosi stranieri. La mobilità internazionale, soprattutto in un ambito come quello della ricerca e dell’innovazione che si basa sulla produzione di idee nuove, originali e sul confronto continuo delle stesse, non può che migliorare sensibilmente la formazione di chi vi lavora. Peccato che dall’Italia i “cervelli” di solito scappano e basta.

In questo senso, assume una valenza strategica il progetto della Regione Piemonte che il 16 Ottobre scorso ha firmato a Roma un accordo con il CNR, l’INRIM (Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica), l’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare), e l’ENEA, impegnandosi a investire 40 milioni di euro a sostegno dei ricercatori nel nostro Paese.

L’obiettivo dichiarato, infatti, non si limita ad aumentare gli assegni mensili destinati a ricercatori piemontesi, ma vuole innalzare a tutto tondo il livello della qualità e l’efficacia del sistema, da una parte favorendo il rientro degli studiosi italiani oggi impegnati all’estero, dall’altra invitando ricercatori stranieri a lavorare per un certo periodo in centri specializzati della Regione.

Si parla di 22mila euro come importo massimo per la borsa biennale di ricerca, 30mila euro per il rientro dei ricercatori dall’estero, 35mila euro come assegno annuale per i ricercatori stranieri e fino a 37mila euro di assegno semestrale ai visiting professors.

Cifre che sembrano alte, ma che vanno confrontate attentamente con le alternative offerte dal “sistema ricerca” degli altri Paesi e con le reali potenzialità di stabilità lavorativa ed economica che chi si dedica alla ricerca, giustamente, richiede. 

Al di là dei punti critici e della possibilità di fare ancora di più, è innegabile, comunque, che si tratti di iniziative concrete, non a caso studiate in una regione, il Piemonte, che tra Università degli Studi di Torino, Politecnico, Università del Piemonte Orientale e Università di Scienze Gastronomiche è da anni impegnata nell’internazionalizzazione delle sue aule universitarie e nella collaborazione stretta con le importanti realtà industriali presenti sul territorio.  La speranza di chi lavora nel settore (o sogna di lavorarvi) è che tali idee possano costituire un modello da seguire per creare una rete solida e capillare di interventi che col tempo rendano l’Italia davvero di nuovo vincente sul piano globale.