Gioventù bruciata?

di Anna Laudati

i1_articoli1659.jpg Emergenza generazionale. La chiama così Federico Mello, classe 1977, fondatore del seguitissimo sito Internet generazioneblog.it e autore de L’Italia spiegata a mio nonno, (Mondadori) che illustra, cifre alla mano, i travagli dei suoi coetanei. «Welfare per noi è una parola senza senso», sospira Mello. E ancora: «La precarietà si sta mangiando il futuro, quanti assegni a vuoto con la nostra firma sono stati emessi»? 

La storia è ormai nota, acclarata e documentata: la generazione dei ventenni e dei trentenni è destinata mediamente a un benessere inferiore a quello dei padri. L’ultima «generazione fortunata», per usare il titolo di un saggio di Serena Zoli dedicato a chi è nato tra il 1935 e il 1955 ed è andato (o sta per andare) in pensione. Per chi lo vuol fare, perché, come spiega Pier Luigi Celli, «il ceto dirigente oggi è formato da over 60 spesso poco propensi a mollare il potere». Oggi assistiamo a un arroccamento dei sessantenni nel Castello del lavoro e del Welfare.

Tutti su a guardare dagli spalti la generazione dei figli, con il ponte levatoio ormai alzato. Una situazione storica paradossale perché riguarda i sessantottini (e dintorni). Coloro che davano l’assalto alla "legge dei padri" si sono poi rivelati egoisti a livello generazionale nei confronti dei figli. Non è soltanto una questione di differenze di stipendi e lavoro. Che pur esistono: gli svantaggi salariali sono stati certificati dal governatore della Banca d’Italia Mario Draghi. Secondo uno studio di Via Nazionale i nati negli anni Settanta e Ottanta hanno stipendi inferiori del 35 per cento in meno rispetto a quello dei padri. «L’Italia e la Francia mostrano nei salari», ha spiegato Draghi, «un profilo ascendente per età, mentre altrove il profilo è a "U" rovesciata: le retribuzioni raggiungono un apice in corrispondenza delle età produttive, calano negli anni successivi».

Non c’è solo il precariato (il 50 per cento dei contratti a tempo determinato è concentrato nella fascia tra i 20 e i 35 anni) e la conseguente precarietà della vita (che è ormai una segno della nostra epoca. Oltre alla scarsa tutela, oltre al ridotto benessere, c’è anche il problema delle pensioni, ovvero del futuro per definizione. Non soltanto entreranno nella «Repubblica delle rendite» a 70 anni anziché a 57 come avviene oggi, ma prenderanno pure di meno. Un impiegato della categoria «quadro» che è andato in pensione nel 2005, percepisce mediamente il 65 per cento del suo stipendio, ma se ci andrà nel 2015 la percentuale scenderà al 60, nel 2030 sarà del 45 e infine, nel 2045 (dedicato ai ventenni di oggi) ammonterà al 34 per cento dello stipendio. Cari ragazzi, vi aspettano tempi duri, anche perché, sulle vostre teste pende anche la spada di Damocle del debito pubblico italiano (80 mila euro a cranio) e del debito pensionistico (250 mila euro).

I nodi verranno al pettine «Le ragioni ultime del declino dell’Italia sono proprio da ricercare in ciò che ciascuna generazione ha trasmesso a quelle successive: prima o poi i nodi vengono al pettine», hanno scritto gli economisti Tito Boeri e Vincenzi Galasso nel saggio Contro i giovani (Mondadori). Già: quando verranno al pettine i nodi di questa «generazione immobile», come la chiama Ilvo Diamanti, rintanata nel grembo dei genitori, incapace di reagire, la generazione «Q», nel senso di quieta, anzi, a ben vedere apatica e passiva, che qualcuno addirittura invita a ribellarsi nelle piazze come fecero i loro padri? Il padre dei sociologi Giuseppe De Rita ha preconizzato qualcosa del genere, all’interno dell’«oscuro pianeta» delle classi ’80 e ’70. Perché i figli non si fanno sentire?

Ma una ragione c’è, si racchiude dentro l’anomalia del «Welfare all’italiana». «Siamo l’unico Paese del mondo dove i genitori sopperiscono privatamente alle inadempienze del sistema, assicurando vitto e alloggio ai propri figli fino alla soglia dei 40 anni. Questo è il motivo dell’ambivalenza di fondo della società italiana e del perché i padri sono così restii a mollare il lavoro o la pensione», spiega Pietro Boffi, responsabile del Centro studi del Cisf, il Centro internazionale studi sulla famiglia. Ecco perché, come scrivono Boeri e Galasso, i giovani «non grideranno mai slogan come «meno padri e più ai figli», perché sentono un debito di riconoscenza verso la mano che li ha nutriti e che continua a farlo fin quasi a 40 anni». Certo che a meno di un nuovo patto generazionale, come auspicato da Benedetto XVI e dal cardinale Angelo Bagnasco alla Settimana sociale dei cattolici, è difficile che il sistema tenga per molto tempo. La necessità di un patto generazionale era già stata avvertita in un rapporto Cisf del 1991. Parlava di una generazione «in dissolvenza», non più un simbolo di ribellione e di lotta contro i padri, di innovazione sociale. Scriveva il sociologo Pier Paolo Donati con straordinaria preveggenza: «I giovani adulti vengono tenuti in sfere di vita dove l’alienazione è scambiata come opportunità di godersi la vita. In termini estremi: una generazione che dovrebbe essere posta di fronte al problema di come potrà mantenere un solido Stato sociale per una popolazione che va rapidamente invecchiando, viene invece mantenuta per non fare niente o quasi». Sedici anni dopo il «problema» è diventato emergenza.

di www.terzarepubblica.it