“La vera povertà sarà quella di coloro che avranno una sola cultura, una sola lingua. Non credo che ci sia qualcuno che può vivere della sola preservazione di sé”. Intervista all’On. Jean Leonard Tuadì, il primo deputato non ‘bianco’ del parlamento italiano, autore del libro "L'immigrazione che nessuno racconta" - Baldini Castoldi Dalai (di Gianfranco Mingione)
Nel 2009 saranno trenta gli anni trascorsi in Italia da Jean Leonard Touadì. Originario della Repubblica del Congo, oggi deputato del Pd, arrivato in Parlamento con l'Italia dei Valori, è stato assessore alla sicurezza, alle politiche giovanili ai rapporti con le università del comune di Roma nella giunta di Walter Veltroni. Che cos’è la legalità per Jean Leonard Tuadì? C’è stato un momento storico in cui la sinistra - le cosiddette forze progressiste - aveva quasi paura della parola legalità perché secondo una certa mentalità la parola legalità rimandava troppo a una cultura di destra con venature palesemente, remotamente totalitarie.
Invece l’esperienza da Assessore alla sicurezza al comune di Roma, e le riflessioni scaturite dagli ultimi eventi, mi hanno fatto recuperare, e ci hanno fatto recuperare, la parola legalità come un valore positivo. D’altronde la scienza politica basa la differenza tra lo stato di natura - lo stato prepolitico - e la nascita dello stato moderno, sulla legalità, cioè sul riconoscimento di alcune norme e di alcune istituzioni deputate a vigilare perché queste norme siano rispettate. Ma queste norme non sono fini a se stesse: sono norme che servono per dare coesione, per vivere, per regolare in modo ordinato la convivenza civile che diventa convivenza pacifica se è regolata dalla legge.
Quindi il recupero di questo grande valore che fonda la democrazia, lo stato di diritto, è una grande novità, e anche una grande bellezza per la cultura progressista e riformista perché impedisce che altre forze si impadroniscano di questa parola e la trasformino in una spada per un uso deviato. Una spada costantemente bandita contro coloro che non appartengono al “noi”. Invece la legalità è inclusiva. E’ inclusiva per tutti coloro che accettano di vivere nel rispetto di queste norme. Quindi legalità vuol dire anche certezza del diritto. Non c’è norma senza sanzione e un impianto sanzionatorio che sia degno di questo nome e che lavori alla giustizia come riparazione. Oltre a lavorare alla giustizia come capacità di reinserimento del reo che una volta espiata la sua pena torna a prender parte della comunità.
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Recenti statistiche ci mostrano che il rapporto fra i giovani e la politica è molto distante. Come si può riavvicinare i giovani alla politica e in particolar modo verso le tematiche dell’inclusione sociale, quindi di carattere sociale? Non posso non fare riferimento alla mia cultura d’origine. Una cultura che aveva uno strumento importante: l’iniziazione. Il giovane, nell’età dell’adolescenza, veniva inserito nella società degli adulti e lasciava, simbolicamente, il mondo della madre per entrare nel mondo del padre, attraverso l’iniziazione. Però quella era una società abbastanza chiusa, quasi ciclica, dove i ruoli e le funzioni erano storicamente stabiliti e tutti sapevano cosa fare, quale era il codice di comportamento, quale era l’universo valoriale e le norme etiche di comportamento.
La società moderna, secondo me, è andata via via perdendo i luoghi dell’iniziazione. I nostri giovani, rispetto al quelli del passato, non hanno dei luoghi dell’iniziazione. Quindi c’è la tentazione, da un lato, degli adulti di precludere gli spazi per coloro che arrivano, e dall’altro la difficoltà dei giovani di farsi largo, di farsi riconoscere, di entrare dentro. Quindi, curiosamente, nonostante la retorica - a questo punto anche fastidiosa della centralità dei giovani e degli adulti che continuano a ripetere ai giovani che sono l’Italia di domani – io ho sempre detto che i giovani dovrebbero invece ribellarsi a tutti coloro che gli dicono che sono l’Italia di domani.
Perché è oggi, non domani, hic et nunc, che i giovani chiedono partecipazione, chiedono diritto di accesso in una società bloccata come questa, chiedono opportunità ma non come gentile concessione degli adulti, bensì come fisiologico funzionamento di una società che vive e va avanti attraverso l’iniezione di energie nuove, di risorse rinnovate.
Quella dei giovani, a mio avviso, è, dovrebbe diventare la nuova questione meridionale del Paese. Non che i problemi del meridione siano stati tutti risolti, ma questa società non può andare avanti a lungo lasciando la risorsa giovane, la risorsa femminile e la risorsa immigrata ai margini dei gangli vitali dove vengono prese le decisioni che contano. Una società aperta, come quella che io immagino, sogno, è una società aperta che deve moltiplicare le autostrade dell’accesso per i giovani, attraverso provvedimenti concreti.
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Un esempio? Ciò deve avvenire attraverso lo scardinamento di tutti i baronati di questa società neofeudale. Curiosamente stiamo ritornando alla società neofeudale, dove la nuova aristocrazia non è più di sangue ma diventa di censo, di rango e chi non appartiene a questo gruppo è condannato a non prendere mai quell’ascensore sociale che era il punto di riconoscibilità di una democrazia. La democrazia è tale se l’ascensore sociale funziona. Se il figlio dell’operaio non è condannato a fare l’operaio ma può aspirare a diventare ingegnere, manager e così via dicendo. La risorsa giovane, la risorsa femminile e la risorsa immigrata, sono risorse che in questo momento sono sottoutilizzate o non affatto utilizzate, costituendo secondo me uno degli elementi di blocco di questo Paese. L’onere della prova questa volta non spetta ai giovani: l’onore della prova spetta alla società degli adulti che deve operare concretamente per lavorare alla morte di sé, perché solo la morte degli adulti, una morte simbolica ovviamente, può permettere l’emergere, l’avvento-evento delle opportunità giovanili.
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Vista la sua esperienza pregressa sui temi della sicurezza e dell’immigrazione, anche in virtù del ruolo da lei ricoperto nella capitale, come gestirebbe tale fenomeno, oggi vissuto come il “problema” dell’immigrazione? Ancora oggi mi chiedo come sia possibile che un Paese come il nostro, settima potenza industriale mondiale, con un posto centrale nel mediterraneo, con una memoria storica di milioni e milioni di italiani che sono immigrati all’estero e una tradizione di accoglienza dovuta al cattolicesimo come alle forze laiche che hanno accolto per decenni tanti immigrati, mi chiedo come può far credere al proprio popolo che l’Italia può ritagliarsi un posto al di fuori da quello che è il grande movimento epocale che è l’immigrazione.
L’immigrazione mette in gioco il diritto alla vita. Tutti coloro che stigmatizzano gli immigrati e poi difendono l’embrione cadono in una flagrante contraddizione: condivido la questione dell’embrione ma non condivido l’atteggiamento di disinteresse nei confronti dell’embrione dopo che è nato. Ci sono una serie di ragioni che suggeriscono di governare il fenomeno anziché subirlo. Parlo delle tre sindromi.
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Tre sindromi? Quali sono? Negli ultimi anni, a partire dall’arrivo degli albanesi sulle coste della Puglia, abbiamo assistito ad un Paese impaurito dal fenomeno, un paese che ha coltivato la “sindrome da invasione” e a ciò ha corrisposto l’ascesa di alcuni gruppi politico-culturali che su questo tema hanno costruito il loro business politico, il business elettorale dell’immigrazione. Un’altra fase è stata quella dell’attentato alle torri gemelle, nel 2001, che ha fatto emergere una questione fortemente identitaria contro gli immigrati di religione islamica. Erano gli anni in cui i nostri politici teorizzavano la preferenza per gli europei bianchi e cristiani dell’Europa dell’est piuttosto che i per i mediorientali.
La paura dell’altro che si è concentrata nell’altro radicalmente diverso: possiamo chiamare questa fase come quella della “sindrome di Lepanto”. La terza fase è quella odierna: la “sindrome della sicurezza”, il paradigma della sicurezza inteso come paradigma dell’insicurezza portata dagli immigrati che concentra sull’immigrazione tutte le tematiche legate alla insicurezza. Paradossale per un Paese che ha più di quattro regioni che convivono con il cancro della malavita organizzata far credere ai cittadini che la priorità sono i furti commessi dai nomadi.
C’è uno spostamento di attenzione secondo me ed anche di priorità rispetto a quello che è il vero problema di questo paese, cioè la criminalità.
Con ciò non sto allineandomi poiché sarebbe un errore, ad una specie di mentalità politically correct per cui non si stigmatizzano i reati laddove commessi dagli immigrati. Ma viceversa fare una semplice equazione fra immigrazione e criminalità è un’operazione di costruzione sociale del nemico estremamente pericolosa.
In un futuro prossimo ci sarà uno spazio per tutti i giovani, senza distinzione di identità sessuale, etnia, religione? Abbiamo pensato ad un certo punto, che la strada inevitabile fosse quella dello scontro fra le civiltà. Io invece penso fermamente che l’umanità non può rassegnarsi a una specie di percorso di autodistruzione collettiva. Bisogna che ci siano delle forze all’interno dei paesi che lavorino alla costruzione di un “noi planetario”. Un noi planetario che non può essere l’omogeneizzazione di tutto, la macdonalizzazione dei modelli di vita e dei valori di riferimento. Ma un noi planetario che si arricchisca di tutti i suoi particolari, un po’ come un fiume che viaggia per migliaia e migliaia di chilometri per andare ad immettersi nel mare e nel suo viaggio si arricchisce dei suoi affluenti mantenendo le sue caratteristiche peculiari. Abbiamo bisogno di persone che lavorino alla mediazione culturale. Immagino un mondo fatto di mediazione culturale come metodo di approccio alle realtà culturali, ma anche dei mediatori culturali, cioè delle persone che dedicano tempo, spazio, energia, intelligenza alla costituzione di questi spazi di impollinazione reciproca. Per fare ciò dobbiamo riconoscere le differenze ma dobbiamo anche sottolineare le similitudini, perché l’esaltazione della differenza può cancellare l’orizzonte della similitudine. Noi siamo diversi perché siamo simili e quel solco comune è la comune appartenenza all’umanità. Come diceva Einstein “conosco una razza sola, la razza umana”.
La vera povertà sarà quella di coloro che avranno una sola cultura, una sola lingua. Non credo che ci sia qualcuno che può vivere della sola preservazione di sé. La novità dell’innesto fa crescere, arricchisce e crea condizioni di pace.
L’intervista è stata realizzata in Roma, a largo dei librari, il 23 ottobre 2008, da Gianfranco Mingione. Tale lavoro rientra nel progetto di comunicazione televisiva “Forum Tv” della Commissione Inclusione Sociale del Forum Nazionale dei Giovani.