"La terza nazione del mondo, disabili tra pregiudizio e realtà". Un libro non solo per disabili
A tu per tu con Matteo Schianchi, laureato in Storia, studioso e sportivo, protagonista agli Europei e ai Mondiali di nuoto con la nazionale italiana di sport disabili, autore del libro “La terza nazione del mondo. I disabili tra pregiudizio e realtà”. Edito da Feltrinelli, il libro, come anticipa il titolo, non è rivolto solo ai disabili ma a tutti coloro che vogliono meglio comprendere, con parole semplici e dirette, un universo di persone che non è lontano da noi e con noi fa parte del nostro mondo ed esige eguali diritti e partecipazione alla vita sociale. Un’opera per tutti.
Come nasce l’idea di scrivere questo libro? Questo libro, legato alla mia esperienza di vita, nasce dal fatto che circa 18 anni fa a seguito di un incidente stradale sono diventato una persona disabile. In quel periodo avevo 17 anni e non è stato facile per me comprendere quanto mi era accaduto. In quell’incidente ho perso un braccio e una gamba e ciò è stato per me un forte trauma sia fisico che personale. Questo libro nasce proprio dopo un lungo percorso di altri 17 anni nei quali ho cercato di ricostruire la mia vita perseguendo degli obiettivi importanti come lo studio e il conseguimento della Laurea in Storia e un lavoro come storico e traduttore. Alla fine di questo percorso è venuta fuori una riflessione, un tentativo per affrontare la questione della disabilità da un punto di vista sociale e psicologico essendo le persone disabili numericamente la terza nazione del mondo. Il primo obiettivo di questo libro è quello di considerare la disabilità come un fenomeno sociale, in senso completo, sul quale bisogna cominciare a fare delle considerazioni.Da quando hai avuto l’incidente, ad oggi, nel nostro paese la situazione dei diritti delle persone disabili è cambiata? Se si, in peggio o in meglio? La situazione era molto più difficile in passato. Oggi, grazie anche al lavoro delle associazioni del terzo settore, abbiamo raggiunto traguardi importanti come, ad esempio, la firma della ratifica della Convenzione dell’Onu per persone con disabilità, uno dei documenti più importanti a livello internazionale in merito a tale questione. Purtroppo, per altri versi, sono ancora un po’ pessimista. Certamente oggi si parla molto di più della disabilità, soprattutto attraverso i media, ma nello stesso tempo sono convinto che non ci siano i linguaggi e gli spazi di approfondimento adeguati per parlare e affrontare tale tematica che presenta ancora molte problematicità. E come se il solo parlarne di più dei mass media costruisca d’emblée dei nuovi linguaggi, ma così non è vero. Mi sembra che troppo spesso la disabilità raccontata dai media non riesca ad andare oltre una duplice rappresentazione del disabile: da un lato il “fenomeno sportivo” che diviene sovente un fenomeno di spettacolo - vedi Pistorius o Grande fratello; dall’altro lato, il “caso sociale” che il più delle volte genera pietismo verso persone che vivono ai margini della società. Non si hanno mai i tempi e le argomentazioni per parlare più approfonditamente di disabilità coinvolgendo anche le persone che vivono e lavorano attorno alla disabilità come le famiglie, gli operatori, gli assistenti vari, i volontari ecc. Una mancanza così grave non è adeguata a costruire una cultura dell’inclusione dei disabili all’interno della società.
Se dovessi dare un messaggio ai giovani in merito alla sicurezza stradale, fonte di gravi incidenti ogni anno, cosa gli diresti? Innanzitutto direi ai giovani di usare la testa per evitare di trovarsi in situazioni spiacevoli, perché poi è troppo tardi. Inoltre direi loro di non aver paura dell’altro, di andare oltre il senso comune su citato grazie anche ai molteplici mezzi di comunicazione che oggi abbiamo a disposizione. In sintesi, cari ragazzi, “divertiamoci, però con la testa”.