Ricerca. Servono più soldi. Giovani ricercatori in fuga
Risorse esigue, assenza di meritocrazia e pochi incentivi: le difficoltà di un giovane ricercatore nell'Italia di oggi. Ne parliamo con Sandra Colazingari, ricercatrice presso l’Istituto di neurologia e Medicina Molecolare del CNR (di Gianfranco Mingione)
E’ vero. Come disse un vecchio saggio “mai fare di tutta un erba un fascio”. Ma, alle volte, la tentazione di bollare il sistema, l’intero sistema della ricerca italiano, come un Titanic sull’orlo dell’inabbissamento è molto forte. Volgendo lo sguardo al settore della ricerca e istruzione nel nostro Paese, ed in particolare analizzando la situazione dei giovani ricercatori universitari italiani, ne esce fuori un quadro fortemente demotivante: risorse troppo esigue, mancanza del merito nei processi di valutazione delle risorse umane e progettuali e mancanza di incentivi economici per i progetti economici.
Ed infine, ma non in ordine d'importanza, scarsa concorrenza tra le progettualità e le Università in grado di mettere in moto un ingranaggio virtuoso tra formazione universitaria e ricerca scientifica. Non investire in formazione e ricerca significa non investire nel futuro di una società nel suo complesso. E’ disarmante notare come in molti casi, la ricerca in Italia dipenda da maratone televisive, vendita di fiori e carità dei fedelissimi. Ma il Governo che fa? Per finanziare la ricerca sul cancro, come ha affermato un personaggio autorevole quale è il prof. Veronesi, occorrerebbe trovare maggiori fondi: "Pur essendo il sistema democratico - sottolinea Veronesi - (...) i fondi per tutta la ricerca sul cancro dal governo sono nell'ordine dei cento milioni, cioé il costo di un calciatore, mentre molti di più sono i soldi per gli armamenti. Bisogna riconvertire un po" (fonte ansa.it). Non ci vuole uno santone per rendersi conto che gli esigui fondi non incentivano i ricercatori. La domanda sorge spontanea: cosa faremo quando nei laboratori e nelle università non vi sarà rimasto più nessun giovane brillante pronto a donarsi per il bene collettivo? Con Sandra Colazingari, che sta svolgendo una tesi sperimentale presso l'Istituto di Neurobiologia e Medicina Molecolare del CNR, cerchiamo di comprendere cosa c'è che non va nella ricerca italiana, e quale possa essere la soluzione ai problemi che tale settore vive ogni giorno.
Sandra. Quali credi siano gli interventi che le istituzioni pubbliche – di concerto con quelle private – debbano condurre per risolvere la sete di fondi che attanaglia gli istituti di ricerca e chi fa ricerca nel nostro Paese? Sicuramente servono molti più soldi. Forse non finanziamenti a pioggia ma risorse mirate verso i gruppi di ricerca migliori. Si potrebbe stabilire una quota di partenza per tutti i gruppi di ricerca e poi sulla base del lavoro svolto dai diversi laboratori effettuare una selezione e finanziare la ricerca dei gruppi migliori. In merito alla valutazione della progettualità e delle persone è ovvio che queste dovrebbero essere compiute in modo serie e non sulla base di amicizie e raccomandazioni. Ma ciò non è semplice, visto che parliamo dell'Italia.
Molti ricercatori hanno deciso di lasciare l’Italia. Credi sia la scelta migliore? Riusciremo a cambiare il sistema prima o poi? Non so dire se lasciare l'Italia sia la scelta giusta. Sicuramente nel nostro campo è molto importante la possibilità di effettuare esperienze in laboratori e ambienti di ricerca diversi, soprattutto nel caso di giovani ricercatori all’inizio della loro esperienza lavorativa. E se tale esperienza viene fatta in un paese straniero, in cui i mezzi a disposizione come anche la qualità della ricerca effettuata sono nettamente migliori rispetto all’Italia, allora ancora meglio. Inoltre come ben sappiamo, la ricerca in Italia è sottopagata e le prospettive di lavoro per un giovane che comincia la propria carriera lavorativa sono praticamente inesistenti. Siamo tutti consapevoli che restando in Italia ci attende una vita di precariato e a volte la necessità per poter vivere dignitosamente di cambiare completamente lavoro. Quindi si, forse la scelta di lasciare l’Italia e svolgere questo lavoro in un altro paese rappresenta una valida alternativa. Ma non dimentichiamoci che il lavoro è solo una sfera dalla vita e che la maggior parte dei ricercatori che sono costretti dalla realtà delle cose ad abbandonare il nostro paese lasciano qui i propri affetti e la propria vita privata e che molte volte andare via rappresenta una scelta definitiva, perché se la vita da ricercatore in Italia non è facile, il ritorno lo è ancora meno. Ho visto ricercatori con curriculum favolosi che al rientro dagli Stati Uniti hanno trovato di fronte a loro solo porte chiuse perché la scelta di partire li aveva tagliati fuori dalle lunghe file di attesa delle ben note ‘stabilizzazioni’ italiane. In sostanza non avevano fatto la fila per il posto fisso....riusciremo a cambiare il sistema?