Essere donne del XXI secolo. Una corsa ad ostacoli dall'asilo fino alla pensione

di Anna Laudati

(di Anna Laudati e Chiara Matteazzi)

editoriale_laudati_matteazziCosa significa essere donna oggi? A questa domanda è difficile rispondere perché di fronte alla complessità delle persone la società istintivamente contrappone schemi grossolani e inadeguati. ‘Bella’ e quindi stupida, ‘brutta’ e quindi cervellona.

Questi sono solo due degli stereotipi che perseguitano oggi la figura femminile, come se una donna non potesse essere molte cose insieme, caratteristica peraltro peculiare a tutti gli esseri umani. È questa una delle quotidiane tragedie dell’universo femminile, che in quanto donne dovremmo prima o poi risolvere.

Essere ‘brutte’ è nella società di oggi un problema. Ma lo è anche essere ‘belle’. Una donna brutta non lavora, spesso, basti pensare che ormai la caratteristica imprescindibile per qualsiasi lavoro è la così chiamata “bella presenza”. Bella presenza. Un’espressione che, a noi belle, fa imbestialire. Le cose che si dovrebbero scegliere per la loro “bella presenza” sono i soprammobili del salotto.

Ma in questo mondo malato, non hanno vita facile nemmeno le ‘belle’, coloro le quali per definizione vantano una “bella presenza”. Essere belle significa spesso, troppo spesso, essere sotto l’occhio indiscreto di un collega, di un datore di lavoro, di un collaboratore che nella maggior parte dei casi oltrepassa la linea imposta dalla professionalità sfociando nel terreno del subdolo, fatto di battutine, apprezzamenti, commenti, inviti a cena.

In questa società le ‘brutte’ spesso non accedono ai ruoli a cui aspirano, e le ‘belle’ vi accedono sotto condizionale: compiacere, in qualche modo, l’uomo di turno. Sia pur con un sorriso, o accettando una cena, l’immagine della donna viene svilita, mercificata, ancora una volta. E il fatto che si consideri necessario accettare questi compromessi, perché in gioco c’è la carriera, ci sbatte in faccia senza metafore ma in maniera cruda e inequivocabile, il livello di degrado che abbiamo raggiunto. 

Per dimostrare di essere intelligenti si è costrette a diventare ‘brutte’, e nello stesso tempo per fare un qualsiasi lavoro serve un tacco 12 e un bel rossetto rosso. Quali sono i comuni denominatori di tutto ciò? Una società basata sull’apparenza e un occhio maschile elevato a giudice.

Forse che parlare di autodeterminazione significhi proprio questo, ossia ribadire e rivendicare ogni singolo giorno della nostra vita quella che ciascuna di noi è. Significa vivere libere dai gioghi imposti dai preconcetti e dal facile e gratuito giudizio altrui.

Viviamo in una società che di fronte alle sfide del presente e del futuro non fa che venderci contrapposizioni pronte per l’uso: bella e stupida vs brutta e cervellona, rom pericoloso vs inglese snob, uomo macho virile vs uomo cervellone ‘sfigato’, politico di destra imprenditore vs politico di sinistra intellettuale,..

Ma ancora non ci siamo stancati? La realtà è fluida, e per quanto tentiamo di intrappolarla, ci scapperà sempre. Per fortuna. Troviamo il coraggio di rivendicarla questa fluidità, questa meravigliosa complessità e a volte incomprensibilità dell’essere umano.

Mai come oggi si è rivelato necessario battere i pugni e ribadire la propria identità peculiare. Si tratta di dire NO, perché una voce sola può poco o nulla, ma di fronte ad un coro di voci che ai pregiudizi oppongono capacità, intelligenza, preparazione, ambizione, vengono rimessi in discussione quegli schemi che vogliono farci cadere tutte dentro un contenitore o l’altro. 

Come hanno giustamente ricordato le donne intervenute alla manifestazione del 13 febbraio “Se non ora quando?”, le prime a dover ribellarsi a questo tipo di società, che ingabbia e soffoca la specificità di ogni donna, siamo noi donne. Ogni ‘santo’ giorno.

Strano, o forse dovevamo aspettarcelo, che domenica nelle piazze c’erano tantissime donne, le belle, le  meno belle, le appariscenti e le meno appariscenti, quelle che  devono conquistarsi con il sudoire della fronte e delle meningi, ruoli e riconoscimenti, come in una corsa ad ostacoli.

Belle o meno belle che siano, le donne che non sono disposte a scendere a compromessi con gli uomini che sono al potere, e purtroppo in Italia ma anche all'estero, sono la stragrande maggioranza, sono penalizzate dai comportamenti di quelle poche che invece dandosi senza alcun ritegno ed amore per se stesse e la loro intelligenza,  non possono occupare, pur meritandoseli,  ruoli autorevoli e di responsabilità per il solo fatto di non 'starci'. 

All'indomani della manifestazione di domenica, ci chiediamo cosa è cambiato per tutte noi? Cambierà qualcosa? Ci saranno dei mutamenti? Chi e cosa potrà cambiare la nostra condizione di frustrate, che nonostante gli anni di sacrifici sui libri, all’università e per i master e i corsi e i titoli acquisiti, e l’esperienza lavorativa maturata sul campo, poi ci ritroviamo dopo cinquant'anni a dover rimanifestare nelle piazze per far riconoscere i nostri diritti di lavoratrici?

Con chi dobbiamo prendercela? Con gli uomini di potere che offrono opportunità su vassoi d’argento o con le nostre sorelle, belle, brave e superficiali, che accettano ben volentieri quelle opportunità sui vassoi d'argento per poi guadagnare stipendi altissimi e posizioni importanti? 

Per il momento, anche se ne paghiamo lo scotto, la nostra magra consolazione è quella di poterci guardare ogni giorno allo specchio con il viso alto e con il sorriso sulle labbra e quella di osservare la gente a testa alta, con la consapevolezza e la forza di non dover nulla a nessuno.