Quando le parole "giovani" e "gioco" evocavano spensieratezza e divertimento

di Katia Tulipano

(di Katia Tulipano)

katia_tulipano C’è stato un tempo in cui parole come “giovani” e “gioco” evocavano spensieratezza, divertimento, sentimenti e situazioni positive.

Oggi sono termini che ritroviamo sulle pagine dei giornali, in Rete, nelle notizie che riguardano le piaghe della società odierna.

Si perché in Italia, e non solo, sempre più spesso quando si parla di giovani si pensa alla disoccupazione giovanile che, secondo l’ultimo Rapporto Ilo sulle tendenze globali dell'occupazione nel 2013, ha raggiunto il picco del 42,4% per la fascia d'età 15-24, mentre nell'Ue 28 avrebbe raggiunto quota 23,4%.
Il dato peggiore dal 1977 ad oggi. Un “incubo nazionale” come lo definì l’ex premier Enrico Letta a termine della Conferenza sul lavoro di Parigi dello scorso novembre.

Non migliora lo scenario se guardiamo al fenomeno del gioco d’azzardo. Secondo le ultime stime riguarderebbe addirittura un milione e mezzo di italiani che negli ultimi sei anni, nel tentativo di inseguire la sfuggente dea bendata, avrebbero dilapidato l'enorme cifra di oltre duecento miliardi di euro.

“Drogati” di gioco che imboccano la strada dell’azzardo nella speranza di migliorare la propria vita e si ritrovano, invece, molto spesso in un tunnel, lasciando dietro di sé famiglia, amici e lavoro. Diventano degli esclusi della società in cui invece vorrebbero emergere tentando la fortuna.

Tra questi tanti, troppi giovani. Soprattutto campani: più della metà degli studenti delle scuole medie superiori (57,8%) giocano d’azzardo, contro la media nazionale del 47,1%. A certificare l’ennesimo triste primato della Campania è la relazione annuale 2013 del Garante per l'Infanzia e l'adolescenza della Regione Campania.

Questi non sono solo numeri in mano ad economisti e psicologici. Sono gli indici, insieme ad altri, della drammatica fragilità della situazione socio economica italiana. Sono la prova che la politica non è stata in grado di tener fede alle “promesse” fatte dalla nostra Costituzione che, nel prevedere all’art. 2 secondo comma il principio personalistico, sancisce la centralità della persona, del cittadino, nella vita del Paese, e si impegna a garantirla.

Che in Italia vi siano circa due milioni di giovani che non studiano e non lavorano, che questi giovani si affidino all’alea del gioco per la costruzione del proprio futuro non è un caso. E’ il risultato di decenni di cortocircuito tra le parole e le azioni della nostra politica. Un dato da correggere se si vuole superare la crisi che sta attraversando la nostra società.

E’ necessaria una vera e propria mobilitazione culturale e politica per far fronte alle emergenze che stanno vivendo le giovani generazioni. E non in un’ottica assistenzialista. Ma perché i giovani soltanto possono condurre al cambiamento della drammatica situazione in cui versa l’Europa.

Cittadinanza attiva, inclusione sociale e lavoro sono le parole chiave per il cambiamento. Tre temi che si intrecciano.

Già dal 2003, nella Carta europea della partecipazione dei giovani alla vita locale e regionale, l’Europa ha indicato agli Stati membri dell’Unione la strada da seguire: “la partecipazione attiva dei giovani alle decisioni e alle attività a livello locale e regionale è essenziale se si vogliono costruire delle società più democratiche, più solidali, e più prospere. Partecipare alla vita democratica di una comunità, qualunque essa sia, non implica unicamente il fatto di votare o di presentarsi a delle elezioni, per quanto importanti siano tali elementi. Partecipare ed essere un cittadino attivo, vuol dire avere il diritto, i mezzi, il luogo, la possibilità, e, se del caso, il necessario sostegno per intervenire nelle decisioni, influenzarle ed impegnarsi in attività ed iniziative che possano contribuire alla costruzione di una società migliore”.

E’ trascorso più di un decennio e la necessità di aver dovuto prevedere un piano di interventi per assicurare una “Garanzia ai giovani” dimostra che i Paesi Europei questo documento, forse, non lo hanno nemmeno letto.

Senza un lavoro stabile i giovani non hanno futuro, non si vince l’esclusione e non si è incentivati a partecipare alle decisioni politiche.

E se i giovani non si interessano della res pubblica, il “cambiamento” rimarrà sempre un mero hashtag da utilizzare in campagna elettorale.