Speciale Donne Marzo 2013. La storia di Joy, vittima della tratta

di Ornella Esposito

Continua lo speciale donna di ServizioCivileMagazine. Questa volta raccontiamo la storia di Joy, nigeriana, caduta nella ragnatela dello sfruttamento sessuale. (Ornella Esposito)

scena_film_la_bas_3 Ha occhi neri come olive, il sorriso accogliente e treccine setose che le cadono lucenti sulla fronte. Ma soprattutto Joy (nome di fantasia,ndr) ha un cuore grande. Quarant’anni, nigeriana (ora anche napoletana)  è stata vittima della tratta sul maledetto asse Niger-Castelvolturno.

Oggi è sposata con Ciro (nome di fantasia,ndr) ed hanno tre bellissimi figli. Il primogenito, adolescente, è una promettente star di un nostro grande sport nazionale.

Joy ha dimenticato (elaborato) le ferite sul corpo e nell’anima che la strada le ha inferto, anche se parlarne le fa ancora male. Ma ha accettato di raccontare la sua storia perché “gli altri sappiamo”.

Da quanto tempo sei in Italia e cosa facevi nel tuo paese prima di venire qui?
Sono venuta in Italia nel 1995, avevo circa 25 anni. In Nigeria facevo la sarta, avevo un negozio con personale alle mie dipendenze. Ho studiato tre anni sartoria.

Lì c’è ancora la tua famiglia?
Si, anche se i miei genitori non ci sono più. Ho 34 fratelli e sorelle. Mio padre ha avuto tre mogli, perché nel nostro paese le leggi basate sulla consuetudine (non dello Stato ma basate sulla tradizione, ndr) lo consentono. Io vivevo con mia madre, poi mi sono resa autonoma quando ho aperto la mia sartoria. Ho conosciuto un uomo di cui mi ero innamorata e siamo andati a vivere insieme.

Poi cosa è successo?
Lui ha messo incinta un’altra donna ed io ho deciso di lasciarlo perché ero già traumatizzata dalla mia situazione familiare. Soffrivo molto, e decisi di cambiare totalmente vita e di venire nel vostro paese. Una mia amica mi portò da una donna che avrebbe dovuto farmi arrivare in Italia e procurarmi un lavoro, tipo baby-sitter, domestica e cose così.
Dovevo fare un debito con lei, e scontarlo poco a poco dopo aver trovato lavoro.

Invece?
Sono arrivata con la mia amica a Castelvolturno in una casa dove c’erano anche altre ragazze. Mi hanno fatto dei documenti falsi. Nessuno mi diceva niente. Dopo alcuni giorni è venuta una signora a vederci e ci hanno separate. Io dovevo andare con lei e la mia amica con un’altra signora. Mi hanno venduta (la voce di Joy si fa sottile,ndr).
Nella nuova casa, mi hanno detto che dovevo sistemarmi i capelli e la sera uno di loro mi ha comunicato: “Vieni con me che ti porto a lavoro”. A quel punto ho iniziato a capire qualcosa. Non potevo chiedere niente a quei signori perché facevano paura. Mi hanno dato dei vestiti e portata sul marciapiedi (Joy si interrompe per un pochi istanti,ndr).

E poi come funzionava?
Tutti i soldi che guadagnavo dovevo darli a loro. Ogni 10 giorni gli davo l’equivalente di mille dollari. Per me non avevo niente, soprattutto, mi era vietato di mandare soldi al mio paese.

I clienti erano molti?
Si, una media di 10 a sera. Poi dipende anche da come sei esteticamente. Io ci ho messo due anni per saldare il debito perché “lavoravo tanto”.

In questi due anni, ti hanno mai porta da un medico per un controllo?
Assolutamente no. Se avevo un malore mi compravano le medicine ed io gli dovevo rimborsare la spesa. Finanche pagavamo l’affitto delle case di questi signori e delle altre ragazze.

Qual è stata la cosa più brutta di questa esperienza?
La strada. Mi hanno rotto la testa picchiandomi (Joy si ferma ancora una volta,ndr). Non sai mai chi si avvicina. Spesso, dietro ad una persona ne sbucavano tante altre.

Estinto il debito cosa hai fatto?
Loro ti lasciano libera di andare quando hai finito di pagare il debito, non prima. Se lo fai prematuramente possono uccidere un tuo familiare, infatti mi avevano minacciata. Io non sapevo dove andare: tornare in Niger era inutile perché non avevo più nessun lavoro lì e poi ero clandestina. Così ho incontrato la Caritas napoletana che mi ha aiutata.

Come è avvenuto questo incontro?
Una notte, per l’ennesima volta, ero stata picchiata a sangue. Mentre uscivo da un vicoletto tutta insanguinata chiedendo aiuto, si fermò una macchina. Era Ciro (suo attuale marito, ndr) che era andato a fare uno spettacolo di beneficenza e si era perso per le strade domizie. Mi propose di andare a casa sua, io inizialmente ebbi paura, poi capii che non voleva farmi del male. Dopo ritornai a Castelvolturno e nel frattempo conobbi un avvocato che aiuta le donne vittime della tratta. Lui mi portò alla Caritas, e da lì mi portarono in una comunità a Roma. Ottenni il permesso di soggiorno e quando uscii, dopo poco, Ciro ed io andammo a vivere insieme.

Un’ultima domanda. Ma oggi, nel 2013, è ancora possibile che le ragazze non sappiano, venute in Italia, cosa le mettono a fare?
No. Oggi si sa. Infatti quelle che vengono in Italia, una buona parte, fanno questo “mestiere” già in Niger. Lo fanno perché sono poverissime, vivono in famiglie numerose ed abitano in case malandate dove ci sono i topi dentro. La scelta è consapevole, ma le loro condizioni sono pessime. Inoltre da noi pensano che l’Italia sia il paese dei balocchi, poi venute qui scopriamo proprio il contrario.