Il Punto di Enrico Tomaselli: Napoli visionaria

di Enrico Tomaselli

(di Enrico Tomaselli)

guggenheim-bilbaoIn questo scorcio d’inizio secolo, pur nel quadro di una profonda crisi economica che attraversa l’Occidente,Napoli sembra essere la più greca tra le grandi città d’Italia. É qui che si manifesta in modo più drammatico la crisi, per un cumulo di ragioni storiche e congiunturali, a cui la rivoluzione arancione ha paradossalmente aggiunto criticità, divenendo elemento ulteriore del problema invece di aprire la strada ad una soluzione possibile.

Non tutte le responsabilità sono quindi ascrivibili al Sindaco ed alla sua Giunta, che però di certo non si possono sottrarre a quelle che gli spettano.

D’altro canto, rimestare nel manico sul tema, rischia di farci avvitare ancora di più nella spirale del declino economico, sociale e civile che attanaglia la città. Occorre davvero cominciare a guardare oltre. Perchè il futuro – della città e di chi ci vive – può essere determinato soltanto da altri; o può esserlo anche da noi.

Ma prima che il futuro si materializzi e si faccia presente, occorre che venga immaginato, pensato, progettato. É di questo che c’è urgente bisogno. Occorre una visione, per il futuro di Napoli. Solo a partire da questa è possibile mettere in moto processi capaci, nel tempo, di approssimarla; per mobilitare le energie e le idee, in quello che deve essere un processo partecipativo, è necessario prospettare un idea di città, che rappresenti e riassuma in sé una possibilità di rinascita.

Per immaginare un’altra Napoli, per costruire per essa unavisione (senza per questo essere soltanto dei visionari), si deve guardare all’anima della città, e spingere contemporaneamente lo sguardo verso gli orizzonti più diversi e lontani. Se la Politica è l’arte di trasformazione del reale, è dalla conoscenza della realtà che si deve partire; ed al tempo stesso, bisogna saper andare oltre questa con lo sguardo della mente e del cuore. Come ciascuno di noi sa nella sua propria esperienza di vita, la costruzione del futuro chiede fatica e passione. Scovare le risorse a cui attingere – e parlo soprattutto di idee, di competenze, di capacità, chè i denari arrivano laddove ci sono queste, non il contrario… – e contemporaneamente delineare obiettivi, disegnare percorsi che portino le prime a raggiungere questi ultimi, è quanto dovremmo provare a fare. Anche imparando dai fallimenti, dalle occasioni perdute, dalle intuizioni sprecate.

Nel corso della deprecata stagione bassoliniana, ad esempio, si è dapprima sprecata quella che a mio avviso fu un’intuizione feconda, per poi sprofondare nel fallimento finale.
L’intuizione fu quella di puntare sull’arte contemporanea, come fulcro su cui costruire una nuova dimensione internazionale, capace di recuperare i fasti della Napolipre-unitaria. Le stazioni della metropolitana dell’arte, le installazioni di Piazza Plebiscito, la nascita del MADRe, lo stesso Napoli Teatro festival, erano tessere di un mosaico che avrebbe potuto effettivamente divenire piattaforma di lancio per un vero rinascimento napoletano. Sfortunatamente, quell’intuizione fu poi sprecata nella pratica concreta.
Non tanto (e non solo) per una non sempre felice gestione delle risorse pubbliche, quanto per due aspetti a mio avviso ben più profondi: da un lato, per non essere riusciti (sempre che ci si fosse provato davvero) a coniugare la modernità, la contemporaneità, con il ricchissimo filone della cultura partenopea, con le sue radici profonde; dall’altro, per aver creato un sistema cortigiano, in cui dominavano la prossimità politica e/o personale più che la capacità e la creatività – che ha poi finito con l’uccidere quest’ultima, anche tra quanti di quel sistema hanno beneficiato.

Fu, in un certo qual modo, e forse anche in larga misura inconsapevolmente, la (maldestra) applicazione delmodello Bilbao.

Quando, nella seconda metà degli anni novanta, fu deciso di tentare il rilancio della capitale morale dei Paesi Baschi, che accusava i colpi della de-industrializzazione, la scelta cadde sull’arte contemporanea come focusdel nuovo polo attrattore che si voleva creare intorno al capoluogo della provincia di Vizcaya. Al centro di quelmodello, la costruzione del museo d’arte contemporanea affidata all’archistar Frank Gehry, e la scelta di adottare per esso un brand di indiscussa fama mondiale (10 milioni pagati alla Fondazione Guggenheim per l’utilizzo del marchio). Ma intorno a quello, ci fu molto altro.

La costruzione di “un progetto identitario di costruzione di un brand territoriale a base culturale” (Simon Anholt), infatti, richiede ben più che un singolo elemento, per quanto assolutamente straordinario come il capolavoro di architettura decostruttivista di Gehry, che ha fatto di Bilbao il caso del ’900; parte dalla riqualificazione dell’intera città, collocando il museo su una magnifica passeggiata fluviale, restituendo l’offerta culturale al tessuto urbano e alla comunità territoriale. In proposito, molto felicemente è stato scritto che “il principale risultato ottenuto dal Museo Guggenheim sia stato quello di essere riuscito a collocare una città come Bilbao, industriale, grigia e con poco movimento internazionale, non solo nel circuito del turismo artistico e culturale, ma in generale nella mappa mentale della gente” (Roberta Bosco, El Pais).
Con tutta evidenza, salta agli occhi lo scarto che separa i risultati dell’esperimento basco dalla applicazione napoletana di quel modello.

Per concludere l’esame del caso Bilbao, mi piace citare una fonte estranea al mainstream artistico-culturale: “Il museo è probabilmente uno dei migliori investimenti della città negli ultimi decenni. È stato al centro di un posizionamento di Bilbao a livello internazionale e ha permesso al territorio di rilanciare un’economia rallentata dalla deindustrializzazione. Ha attirato turisti e investimenti, ma anche talenti, e creato capacità di innovazione e una “vibe” decisamente originale. Quello che però spesso passa in secondo piano è che il Guggenheim da solo avrebbe portato a ben poco. Il progetto è stato vincente perché la città è riuscita a collocarlo in un piano organico dell’area” (Guido Romeo, Wired).

Dunque, a partire da una visione complessiva sul futuro del territorio, è stato possibile che una cittadina posti-industriale di 350.000 abitanti operasse una trasformazione profonda, capace di imprimersi nell’immaginario collettivo mondiale in modo duraturo. Cosa sarebbe potuto accadere, se una talevisione – e la capacità di tradurla in azioni concrete e coerenti – fosse stata implementata su Napoli? Con la sua collocazione geografica, il suo patrimonio artistico, la sua tradizione culturale?

Certo, anche la straordinaria capacità iconica dell’architettura di Gehry ha contribuito non poco a questo successo. E questo, anche in virtù della densità storica ed artistica di Napoli, era forse non riproponibile – in questi termini. Anche per questo, trovo che la responsabilità maggiore di questa attuale sindacatura sia l’imperdonabile miopia con cui, sin dal principio, e con ostinata determinazione, ha affrontato il lascito migliore che gli veniva dalla precedente amministrazione: il Forum Universale delle Culture.

Se l’amministrazione De Magistris avesse avuto davvero una visione di città, se non avesse inseguito l’idea di una rinascita fondata su una dispendiosa – e tardiva – successione di eventi effimeri, se fosse stata capace di cogliere  il senso ed il valore di quella opportunità, avrebbe davvero potuto lasciare un’impronta duratura di sé sulla città, segnando la Napoli futura in modo ben più incisivo che non con una lunga, quanto inutile, striscia d’asfalto arancione.