Il punto di Enrico Tomaselli: Libertà è partecipazione

di Enrico Tomaselli

In questi giorni, a Roma, si tiene la seconda edizione della Biennale dello Spazio Pubblico. Obiettivo della Biennale, è quello di “diffondere buone pratiche realizzate in Italia e all’estero, e stimolare il dibattito sul recupero degli spazi pubblici”. Chissà se l’amministrazione pubblica napoletana se ne è interessata... (Enrico Tomaselli)

acquedotto Perchè poi, a furia di parlare di beni comuni, si rischia di perdere di vista qual’è il senso del termine pubblico. E invece non sarebbe male rammentare che con questo termine si indica non solo ciò che appartiene al pubblico (ovvero la sua proprietà è collettiva), ma anche ciò che è aperto, fruibile dal pubblico.

In tempi in cui si fa uso a piene mani della retorica, per giustificare operazioni di cassa – si pensi al reiterato richiamo alla necessità di “salvaguardare le nuove generazioni”, come scusa per colpire quelle attuali (riforma delle pensioni, tagli al welfare…) – non è male provare un attimo a riportare l’attenzione su questo termine, sul suo significato più pieno e profondo.
Da decenni, ormai, si è imposta in Europa – ed in Italia in particolare – un’idea della politica del tuttosubalterna all’economia, ed un’idea di quest’ultima profondamente svincolata dal mondo della produzione reale, privilegiando invece quella finanziaria. Basti pensare alla incredibile quantità di Presidenti della Repubblica, del Consiglio, e Ministri vari, che negli ultimi anni sono approdati direttamente ai vertici della gestione dello Stato, provenendo da quello delle banche e della finanza.
É fuori discussione che, di là dalla personale onestà e correttezza, questi abbiano portato con sé, e nella politica, il proprio imprinting culturale; che è appunto quello di chi opera all’interno di un preciso sistema,ovviamente condividendone logica e prassi.
Il progressivo slittamento della politica, la sua perdita del senso di sé e del proprio ruolo, ha finito col determinare e consolidare l’idea dominante che occuparsi della cosa pubblica sia fondamentalmente una questione contabile. É così che il patrimonio pubblico diventa, nella visione dell’attuale classe dirigente, esclusivamente patrimonio: una risorsa, un bene, da mettere a reddito se non da alienare per far quadrare i conti.

Ma il patrimonio pubblico non è solo patrimonio comune,di tutti. La proprietà pubblica di un palazzo, di là dal suo valore storico, artistico e culturale, non fa capo meramente alla collettività attuale; essa deriva anche dal contributo delle generazioni precedenti, ed appartiene in egual modo alle generazioni future. La sua alienabilità è quindi materia molto delicata. Tanto più che, nel medesimo arco di tempo che ha visto l’affermarsi di questa ideologia liberista, non a caso nel nostro Paese si è assistito ad una progressiva e costante polarizzazione sociale ed economica, con la crescente concentrazione della ricchezza e la depauperizzazione dei ceti medi e meno abbienti. Segno questo che il modo in cui concretamente sono state gestite le politiche di rigore e di risanamento dei conti, ha prodotto sostanzialmente unospostamento della ricchezza, senza peraltro sanare i deficit; legittimo quindi prevenire la svendita del patrimonio pubblico, i cui costi ricadrebbero sulla collettività, apportando ancora una volta ricchezza laddove essa già si trova.
Ma non è ovviamente di economia, che voglio dire – non ne ho né la competenza né la passione. Pur non mancandomi, come a ciascuno, la capacità di cogliere le discrasie tra gestione pubblica e comune buon senso
Quel che mi interessa è capire quale dovrebbe, e quale possa, essere una gestione saggia ed eticamente corretta del patrimonio pubblico. Che ne rispetti il valore non meramente economico, senza per questo ignorarne quest’ultimo aspetto.

Pur nella considerazione che le politiche economiche e finanziarie sono sempre più sovradeterminate – in una progressione piramidale, al vertice della quale c’è l’indefinito quanto incontrollabile mercato – non si può non partire dai territori, dagli ambiti territoriali ed amministrativi locali. Quelli che, non a caso, sono consideratienti di prossimità.
E basti pensare all’enorme patrimonio pubblico afferente la città di Napoli, per rendersi conto della portata del problema.
A due anni dal cambio di amministrazione comunale, da quella rosa (di nome e di fatto!) del centrosinistra a quella arancione del sindaco De Magistris, cosa è veramente cambiato, sotto questo profilo? Di la dalla retorica dei beni comuni, le uniche vere interlocuzioni dell’amministrazione sono state quelle con i gruppi economici ed imprenditoriali (De Laurentiis, Romeo, Faraone Mennella…). E se da un lato si è avviata un’operazione di alienazione del patrimonio immobiliare abitativo del Comune, sempre tramite la Romeo (ed i cui vantaggi economici finali sono ancora tutti da verificare), nulla si è mosso o si è visto per quanto attiene a quella parte di patrimonio pubblico che è tale non soltanto per titolo di proprietà. Forse con due sole eccezioni.
Il complesso conventuale di San Domenico Maggiore, il cui restauro è però frutto di scelte fatte e fondi impegnati dalla precedente amministrazione, e sul cui destino attuale e futuro, però, grava una cappa di assoluta incertezza. Il che porta con sé il pericolo dell’abbandono e dello spreco.
E, per altri versi, il complesso dell’ex-asilo Filangieri, in cui la lunga non-occupazione messa in atto (con il non disinteressato avallo del Sindaco) dal collettivo La Balena, se da un lato ha certamente prodotto un’intensa attività, dall’altro ha congelato una situazione comunque anomala e discutibile, sotto il profilo della legittimità formale e sostanziale. Resta da vedere, al riguardo, cosa ne sarà ora che la Fondazione Forum delle Culture – che lì ha sede – è tornata ad essere, dopo tutte le giravolte di De Magistris, l’organo attuatore del Forum stesso (altro mistero glorioso…).

E l’Albergo dei Poveri a Piazza Carlo III? Ed il complesso dell’ex-Ospedale Militare ai Quartieri Spagnoli? Solo per citare i due casi più macroscopici. Di la dall’essere di volta in volta indicati dal Sindaco, nelle sue estemporanee dichiarazioni, come sede di questo e quell’altro, rimangono strutture vuote, solo del tutto occasionalmente utilizzate. E le decine e decine di chiese abbandonate? E i famosi bandi per l’assegnazione degli spazi comunali al mondo dell’associazionismo? Che ne è, del patrimonio pubblico napoletano, qual’è la sua condizione attuale, e la sua destinazione futura? Quale idea ha in merito – ammesso che ne abbia una – l’attuale amministrazione?
Tra le fantasie (e le ambizioni) di grandeur del sindaco, e gli appetiti degli immobiliaristi, la città è in effetti gestita come un condominio.  Nessun orizzonte che non sia la quotidiana manutenzione. Che per di più, avendo pochi soldi in cassa, risulta assai sbilenca e precaria.
Bene fanno i partiti della sinistra, a rifiutare l’ingresso in maggioranza, senza un cambio programmatico del governo cittadino. Ma fanno malissimo quando questo cambiamento non sanno concretamente disegnarlo e proporlo. Dov’è l’idea di città futura? Qual’è il progetto nuovo?
Ben venga il lungomare liberato (anche se tempi e modi per realizzarlo sono stati a dir poco discutibili); anche isimboli servono. Ma serve anche altro. Serve urgentemente qualcuno che tracci le linee guida per la Napoli di domani. Che chiarisca il cosa ed il come, oltre che il quando. Magari – ad esempio – a partire da un censimentodel patrimonio pubblico a Napoli. Così, per avere quanto meno un’idea concreta di cosa stiamo parlando.
Se si provasse ad aprire una discussione pubblica, su questi temi? Non sarebbe forse – e per davvero – una cosa di sinistra?
“Libertà è partecipazione”, mi par di ricordare…