Il punto di Enrico Tomaselli: Default!

di Enrico Tomaselli

L’idea – alquanto corporativa – che le differenze implichino separatezza, è sempre stata alquanto deleteria. (Enrico Tomaselli)

default Perchè se è vero che “nessuno si salva da solo”, è altrettanto vero che i problemi di una società (e ciò vale tanto più per società complesse, come quella in cui viviamo) non possono essere risolti se non in una logica amplia, complessiva, che li affronti ciascuno nella sua specificità, ma all’interno di un quadro unitario, di un’unica visione strategica.

Le problematiche del comparto culturale italiano, dunque, non sono separabili dal contesto politico generale; né tanto meno, fuori da questo, risolvibili… Tutto si tiene.

Mentre una classe dirigente sclerotizzata ed incapace di immaginare un futuro diverso, si sciacqua continuamente la bocca con la trita e ritrita frase su “i beni culturali come il petrolio dell’Italia” (peraltroculturalmente sbagliata), il budget del Ministero per i Beni Culturali nel 2013 scende a 1,5 miliardi di euro, perdendo in dieci anni il 27% del suo valore.

Non solo. Dopo tante chiacchiere elettorali, PD e PDL votano insieme anche il via libera all’acquisto dei contestatissimi F35, 16 miliardi di euro. Che vanno ad un comparto, quello militare, che oltre ad essere scandalosamente gonfio di sprechi e volgari privilegi, per quanto necessario è comunque per definizioneassolutamente improduttivo. 16.000.000.000 di euro, undici volte il budget annuale del MIBAC, solo peracquistare alcuni aerei da combattimento (a cui andranno aggiunti enormi costi di gestione, per gli anni a venire), laddove invece  la filiera culturale nel nostro paese genera risorse pari a oltre il 15% del PIL.

É fin troppo evidente, quindi, che gli enormi problemi del settore culturale, in Italia, non soltanto non sono separabili dalle scelte politiche generali, ma sono anzi diretta conseguenza di queste.

Così come è evidente che le politiche rigoriste, invece di risolvere i nostri problemi, ci stanno trascinando verso il default. Il debito continua ad aumentare, così come la pressione fiscale, in una spirale perversa nella quale l’una insegue l’altro, ed entrambe si avvitano verso il disastro.

É quindi precisamente una rivoluzione culturale, ciò di cui più urgentemente necessitiamo.

Tornando all’ottica particulare, con cui e da cui su questo blog si guarda al paese, mi sento di dire che il primo passo sarebbe (dovrebbe essere) smettere di considerare il Ministero per i Beni Culturali come la Cenerentola del Consiglio dei Ministri. In Italia, ministeri di peso sono considerati quelli che controllano la spesa, o che consentono un redditizio controllo politico. Al contrario, andrebbe davvero sovvertito l’ordine, portando in primo piano quelli che per il nostro paese sono i ministeristrategici: Beni Culturali, Istruzione Università e Ricerca. Dare a questi settori la rilevanza politica che meritano, e di cui l’Italia ha disperatamente bisogno, è il primo, necessario passo che andrebbe compiuto. Adeguandone quindi le risorse. Questo, e non altro, significherebbe imboccare la strada del cambiamento.

Ed è precisamente questa la ragione per cui, al contrario, e contrariamente a quanto affermato ad ogni piè sospinto, la classe dirigente del paese – tutta intera – va in direzione opposta. Perchè il cambiamento porta con sé la sua estinzione. Perchè anche i migliori al suo interno, sono talmente impregnati dalle logiche dominanti, da risultarne troppo profondamente condizionati – in ultima analisi, anche se capaci di avvertire la necessità del cambiamento, incapaci poi di perseguirlo davvero.

“Il sistema produttivo culturale vanta un moltiplicatore pari a 1,7: come dire che per ogni euro di valore aggiunto prodotto da una delle attività di questo segmento, se ne attivano, mediamente, sul resto dell’economia altri 1,7. In termini monetari, ciò equivale a dire che gli 80,8 miliardi di euro prodotti nel 2012 dall’intero sistema produttivo culturale, riescono ad attivarne quasi 133 miliardi, arrivando così al totale di 214,2 miliardi.” (Artribune, 27/6/2013)

Le ricchezze, anche economiche, del paese sono di evidenza assoluta. Basta guardarsi intorno, fare un giro per le nostre città.

Quel che manca, spaventosamente, è la capacità di farne davvero volano di sviluppo. Ben che vada, si fa ricorso alla vuota retorica dei beni culturali come petrolio. Insopportabile non solo perchè, appunto, resta sempre e soltanto mero esercizio retorico, becera propaganda elettorale, ma anche perchè assolutamente sbagliata.

Di là dal fatto che, chi il petrolio lo ha davvero, ha saputo farne uso accorto, producendo enorme ricchezza, paragonarvi i beni culturali significa ridurli a mera merce – e quindi, paradossalmente, ridurne persino il valore in quanto tale!

La seconda urgenza, quindi, e ribaltare il paradigma con cui si guarda al settore cultura.

Se il settore non solo produce ricchezza, non solo trascina virtuosamente con sé pezzi più ampi di economia, ma garantisce la preservazione ed il continuo incremento del patrimonio culturale, bisogna guardare ad esso come chiave per invertire la rotta – chiudendo l’infausta stagione che l’ha visto e lo vede vittima di tagli devastanti. “Le risorse relative alle principali programmazioni per l’esercizio dell’attività di tutela hanno subito una riduzione del 58,2% passando da 276.636.141 a 115.632.039″. Questo è quanto si afferma nel documento trasmesso dal Ministro Bray alle Camere. Su questa strada, si va dritti verso il precipizio.

“Nel confronto sulla spesa statale per la cultura siamo fanalino di coda in Europa: il budget del nostro ministero è praticamente pari a quello della Danimarca (1.400 milioni di euro) ed è circa un terzo di quello della Francia che ogni anno stanzia circa 4 miliardi per il suo dicastero della cultura. La nostra spesa in cultura per abitante è di soli 25,4 euro l’anno, la metà di quella della vituperata Grecia, che impegna 50 euro per ogni cittadino”. (Artribune, 1/7/2013)

E già fa capolino una nuova minaccia a questo patrimonio: il combinato disposto tra politiche rigoriste (e conseguenti tagli) ed approccio mercificatorio, spinge verso una sostanziale rinuncia al ruolo pubblico nella gestione del patrimonio stesso, ed una sua progressiva alienazione sostanziale agli interessi privati. Invocando infatti la necessità dell’apporto di capitale privato, si sta minacciosamente delineando un modello di privatizzazione mascherata dei beni culturali. E – di là da punti di vista ideologici diversi – quanto le privatizzazioni italiane abbiano fatto danni, è sotto gli occhi di tutti. Giustificate come necessarie, per ridurre il deficit, e come utili, per aumentare con la concorrenza i vantaggi per i consumatori, ci hanno regalato disastri come Alitalia e le banche...

I primi segnali di questa politica dissennata già si vedono.

Piazza Plebiscito a Napoli praticamente regalata agli organizzatori del concerto di Bruce Springesteen. Ponte Vecchio a Firenze chiuso per un giorno perchè affittato alla Ferrari per meno di 100.000 euro. L’intero Palazzo della Civiltà Italiana, all’EUR, affittato alla Maison Fendi per 15 anni, a circa 20.000 euro al mq… Una pericolosissima deriva, alla quale è urgente mettere un freno subito. Mi auguro che il Ministro Bray avverta la necessità di un suo intervento in merito. Senza qui voler invocare un ritorno ad un centralismo autoritario, non si può non vedere come il federalismo italiano si sia troppo spesso tradotto in confusione, spreco ed arbitrio, e si rendano quindi necessari – e con urgenza – provvedimenti in grado di frenare lo scempio – tanto più in un settore, quello dei beni culturali, che più di ogni altro è legato intimamente alla nostra identità.

Comunque la si pensi, è sempre più evidente che un’altro mondo non solo è possibile, ma è necessario. Per questo, oggi, mi sembra doveroso rammentare a tutti noi uno tra i tanti che lo hanno creduto. Carlo Giuliani, ragazzo.