Il punto di Enrico Tomaselli: O' miracolo!

di Enrico Tomaselli

La (prolungata) sensazione di impotenza che spesso ci pervade, a fronte di tutto ciò che ci circonda, è purtroppo l’anticamera della rinuncia, della fuga – se non proprio della depressione. La sensazione – appunto – di essere circondati, mina le basi della nostra capacità di resistenza. Il che rende necessario, almeno una tantum, qualcosa che assicuri la persistenza dei necessari anticorpi. (Enrico Tomaselli - @EnricoTomaselli)

plebiscito Per questa ragione, oggi questo post cercherà di evitare (per quanto umanamente possibile) le polemiche, virando piuttosto verso l’utopia. Giusto per darsi una boccata d’ossigeno.

Non scriverò dunque del Forum delle Culture, la cui inaugurazione slitta ancora una volta, né del suo misterioso programma che - come in una spy story dozzinale – alcuni quotidiani riportano come se l’avessero audacemente trafugato da una valigia diplomatica. Non dirò della sua durata, che ora pare estendersi sino a luglio 2014, né della mancata sottoscrizione dell’accordo Comune di Napoli / Fondazione, necessario per avviare concretamente la gestione della manifestazione.

Oggi provo a scrivere non della Napoli che è, ma di quella che non si riesca a far essere.

Napoli è una città che custodisce ricchezza, ma non una città ricca. Al tempo stesso, è una città che possiede una sua ricchezza – storica, artistica, culturale – non traducibile in termini economici.

Leggevo giorni addietro la recensione di un interessante libro di Tomaso Montanari, il cui autore così descrive l’idea occidentale di città ricca: “un reddito pro capite elevato, un capitale pubblico esteso e ben manutenuto, infrastrutture per la mobilità all’avanguardia, efficienza energetica e sostenibilità ambientale, coesione sociale e partecipazione democratica”. Appare evidente che, se questi sono i parametri (ed a me appaiono riduttivi), Napoli si trova all’estremo opposto.

Napoli è una bella cartolina, da osservare fugacemente, ma questa bellezza non è più sufficientementeconsolatoria, per chi ci vive. Per questo, le politiche amministrative degli ultimi anni, che invece ne accentuano il carattere di prodotto per un consumo turistico effimero, stanno solo peggiorando la situazione.

La città nata dalla sirena Partenope è in realtà una cittàrespingente. Risulta amabile per il turista mordi-e-fuggi, al quale i suoi difetti possono apparire folkloristici, ma scoraggia i soggiorni prolungati; ed ovviamente, è sempre più difficile da vivere per i suoi residenti.

Ha (momentaneamente) risolto il problema dei rifiuti urbani, ma resta una città sporca (e non è solo una questione di spazzatura…). Ha liberato dalle auto il lungomare (per riempirlo con un bazar di vu-cumprà), ma resta una città con una pessima mobilità. Ha la più bella metropolitana d’Europa (ormai il suo vero museo d’arte contemporanea), ma il trasporto pubblico su ferro rimane al di sotto della sufficienza.

Se persino il Cardinale Sepe arriva a dire che “la città è al collasso” (e non è che il pulpito da cui viene la predica mi piaccia più di tanto…), è segno che i guasti sono profondi. L’unico ottimista rimasto in città sembra essere il Sindaco, per il quale invece Napoli “sta risorgendo”.

Un risorgimento che si continua purtroppo a pensare in termini episodici, non strutturali, anche perchè ovviamente sono più facili da realizzare. Ma l’idea che il rilancio della città possa passare da qualche grande evento - o da operazioni di facciata – si è già rivelata fallace. Fagocitano risorse, restituendone poche econcentrate (come al solito, paghiamo tutti e incassano pochi), ma non determinano sviluppo. Occorre invece cambiare registro.

Occorre ricostruire un tessuto connettivo, una trama sociale fitta, che faccia da terreno fertile per le iniziative di rilancio.

Napoli deve tornare ad essere una città accogliente, che attrae capitale umano (prima ancora che investimenti). Una città capace di offrirsi al mondo non solo per le sue bellezze paesaggistiche e monumentali, ma anche e soprattutto come scenario di prospettive future.

Per fare questo, ha bisogno di linfa nuova. Ma, appunto, di linfa, di qualcosa che partendo dal basso, venga filtrato dalle radici e portato su, sino a far sbocciare nuovi germogli. Non servono innesti e talee, non ci sono scorciatoie. É un processo che vuole il suo tempo, e quindi non (si) può aspettare. E portare linfa nuova significa tanto per cominciare smuovere il terreno; troppo a lungo è stato lasciato abbandonato a se stesso. Fuor di metafora – chè altrimenti rischio di far la parte di Chance Giardiniere… – ci vorrebbe un po’ più di protagonismo dal basso. Meno rivendicazionismo, che ormai si è visto non trova ascolto e quindi non produce nulla.

Parafrasando J.F.Kennedy, verrebbe da dire che è tempo di chiedersi “cosa posso fare per la mia città”,piuttosto che “cosa la mia città può fare per me”.

Bisogna spezzare la spirale in cui ci stiamo avvitando. Non tutto dipende da chi amministra, tanto è responsabilità degli amministrati. Ma la città sembra aver perso la sua capacità di reazione – ed è triste dirlo a pochi giorni dall’anniversario delle quattro giornate. Serve uno scatto, e serve qualcosa che l’inneschi.

Napoli possiede un vasto patrimonio immobiliare nella disponibilità del Comune e della Curia.

Bene, poiché il cambiamento necessità di ben più che qualche tweet rivoluzionario e/o qualche omelia, si metta mano ad almeno una parte di questo patrimonio, restituendolo in modo positivo e propositivo alla città. Si avvii un percorso che, da un lato, renda disponibili spazi di socialità e di produzione per i napoletani (e non certo a costo di mercato!), attraverso procedure pubbliche, semplici e trasparenti. Dall’altro, si attragga in città quella linfa nuova di cui necessita, attraverso un programma di residenza prolungata (almeno un anno) aperto ad artisti e ricercatori di tutto il mondo, offrendo alloggio gratuito. (Tra parentesi, questa è una delle cose che avrebbero potuto e dovuto essere fatte, nella prospettiva del Forum Universale delle Culture…)

Un’operazione di questo genere rappresenterebbe un vero e proprio shock sociale, economico e culturale, e produrrebbe un’onda d’urto capace di innescare, già sul breve periodo, innumerevoli processi positivi nella/sulla città. Avrebbe un’impatto forte non solo sul tessuto economico, ma anche su quello sociale.

Questa città, da sola, non può farcela. Ha bisogno di qualcosa in più. Un’utopia? Forse. Un miracolo? Forse. Ma la squagliata del sangue di San Gennaro è come il lungomare più bello del mondo: lascia le cose come stanno.{jcomments on}

Stavolta ci serve un miracolo bello grosso.