Jafar Panahi condannato a sei anni di carcere. Ecco come muore la libertà d’espressione

di Anna Laudati

"Non mi pento dei momenti in cui ho sofferto; porto su di me le cicatrici come se fossero medaglie, so che la libertà ha un prezzo alto, alto quanto quello della schiavitù. L’unica differenza è che si paga con piacere, e con un sorriso, anche quando quel sorriso è bagnato dalle lacrime". (tratto da: “Lo Zahir” Paulo Coelho). (Alessandra Campanari)

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La notizia della condanna ''per aver agito e aver fatto propaganda contro il sistema'' del regista iraniano Jafar Panahi a sei anni di prigione, cui si aggiungono i divieti di scrivere sceneggiature, girare film e lasciare il suo Paese per i successivi venti anni, riporta tragicamente la travagliata vicenda del cineasta al centro dell'attenzione dell'opinione pubblica internazionale. 

Il regista, cinquanta anni, Camera d'oro a Cannes nel 1995 per la migliore opera con il “Palloncino bianco”, Leone d'oro alla Mostra di Venezia nel 2000 per “Il cerchio” e Orso d'argento a Berlino nel 2006 per “Offside”, era stato arrestato il 2 marzo, nella sua abitazione a Teheran, assieme ad altre sedici persone fra cui la moglie e la figlia, poi rilasciate. Per la sua liberazione, avvenuta dopo ottantotto giorni di prigione, il 24 maggio, dietro il pagamento di una cauzione di 200 mila dollari, si sono battuti per mesi, con appelli, proteste e iniziative, decine di artisti in tutto il mondo.

Arrestato già una prima volta nel luglio del 2009 in un cimitero di Teheran mentre partecipava a una commemorazione delle vittime delle proteste post elettorali, Panahi, simbolo del dissenso contro il governo del presidente Mahmoud Ahmadinejad, si era visto negare ad ottobre 2009 la possibilità di partecipare in India al Festival del Cinema di Mumbai, dove doveva far parte della giuria. Dopo il rilascio a maggio, Panahi non aveva potuto lasciare l'Iran. 

Invitato lo scorso settembre alla Mostra di Venezia dalle Giornate degli Autori che ha proposto in anteprima mondiale il suo corto “La fisarmonica”, il regista, il giorno della proiezione aveva dichiarato, in collegamento telefonico: “Io stesso non so perché c'è quest’accanimento del governo iraniano nei miei confronti. Forse perché sono un regista che fa film per la gente, per la società e le autorità non amano questo”.

Ora, nuovamente, il presidente iraniano torna a calpestare diritti fondamentali dell’uomo. L'ultimo a farne le spese è stato proprio Jafar Panahi: Il maestro rischia sei anni di carcere dopo la condanna del Tribunale di Teheran. L’ha riferito il suo avvocato. E tutto questo per aver iniziato a girare un film sulle proteste del Movimento Verde, ovvero sull'opposizione ad Ahmadinejad scesa nelle strade del Paese nel giugno 2009. Ma il regime non accetta chi la pensa diversamente, chi vuole raccontare al mondo la realtà dell'Iran.

Thierry Framaux, a capo del festival di Cannes, si è detto pronto a mettere in piedi un comitato per sostenere il maestro. “E’ inammissibile” - ha protestato Framaux - che realizzare un film possa condurre una persona in carcere”. Non sono mancate prese di posizione anche da parte di personalità del cinema italiano tra cui Gianni Amelio e Pupi Avati, che si sono rivolti alla politica, e in particolare al ministro delle Attività Culturali, Bondi, e al ministro degli Esteri, Frattini, per assumere un’iniziativa in difesa della libertà personale e d’espressione dell'autore iraniano.

Jafar Panahi è un intellettuale scomodo per l’Iran per la sua militanza a favore del leader dell’opposizione Mir-Hossein Mousavi. Il suo potenziale ‘eversivo’ nasce però soprattutto dalla sua arte cinematografica e dalle tematiche d’impegno civile che ne sono scaturite. In film come Il “Palloncino bianco” o “Lo specchio”, Panahi ha saputo descrivere le ingiustizie della propria terra, attraverso gli occhi innocenti dell’infanzia. Il suo capolavoro è tuttavia “Il cerchio”, pellicola nella quale la denuncia di Panahi diviene più esplicita: vi sono, infatti, raccontate le storie di otto donne iraniane, oppresse da una cultura loro ostile.

Hamid Dabashi, professore di studi iraniani alla Columbia, ha così commentato la notizia: “E’ una vera catastrofe per il cinema iraniano. Panahi non si trova nella fase più creativa della sua vita, e mettendolo a tacere in questo periodo particolare uccidono la sua arte e il suo talento. Quello che l’Iran fa con gli artisti è simile a quello che i Talebani hanno fatto in Afghanistan. Come i Talebani che bombardano le statue di Buddha, l’Iran fa la stessa cosa con i suoi artisti”.

Il governo iraniano ha fatto la sua scelta. Ora, tocca a noi e ai nostri governi, scegliere. Possiamo rinunciare ai nostri valori oppure possiamo alzare la voce e chiedere con fermezza al presidente iraniano la libertà per Jafar Panahi, per Sakineh Mohammadi Ashtiani (donna condannata alla lapidazione per adulterio), per Nasrin Sotudeh (avvocatessa di molti attivisti dei diritti delle donne), per Bahare Hedasyat (la giovane leader del movimento studentesco), per Ahmad Zeidabadi (noto editorialista) e per le centinaia di altri uomini e donne chi ingiustamente si trovano in carcere in Iran e sono puniti per atti che da noi non solo non costituiscono un reato ma che sono considerati un valore.

Si può, siamo liberi come l'aria | si può, siamo noi che facciam la storia | si può, libertà, libertà, libertà | libertà obbligatoria. (da “Si può” Giorgio Gaber.)