Crisi Libica. Le ripercussioni economiche che potrebbero colpire l'Italia

di Francesco Fulcoli

La guerra in Libia, comunque vada, porterà a delle conseguenze che si ribalteranno in negativo sull'economia già in crisi, del nostro paese. Oggi infatti, l’Italia si trova nell'indesiderata e paradossale posizione di dover sperare innanzitutto nel successo pieno di un'operazione che vive specialmente nel ruolo di vittima; e poi, che in tutto ciò, nel post Gheddafi, riesca a farsi rispettare. (Francesco Fulcoli)

guerra-libia-italia Lo 'status quo' dei rapporti italo libici. l’Italia ha un debito con la Libia da quando nel 1969 un colpo di stato portò al governo Gheddafi, il quale non perse tempo per riaprire il contenzioso con il nostro bel paese sul passato coloniale. Il nodo centrale del rapporto politico resta, oggi come allora, la pretesa libica di risarcimento per i danni causati dagli italiani nel corso della colonizzazione e delle guerre combattute su suolo libico. La questione però ha ispirato diverse discussioni: se l'attuale Libia (mai indipendente prima del 1951) era internazionalmente riconosciuta come parte del territorio italiano, i danni provocati dalle operazioni militari italiane degli anni venti e trenta, nonché della Seconda guerra mondiale sul fronte nordafricano, avrebbero colpito lo stesso territorio italiano e non quello di un altro Stato; tra le altre cose nessuno stato europeo ha mai pagato dei soldi per dei presunti danni derivati dal possesso coloniale di un altro territorio ora indipendente. 

A queste singolari richieste, comunque, si è contrapposta sempre la necessità di mantenere un rapporto politico disteso, per una serie di motivi come l'importanza delle operazioni di estrazione del petrolio, la possibilità di collaborare nella lotta contro il fondamentalismo ed il terrorismo, la ricerca della stabilità nel Mediterraneo e soprattutto a non covare nemici nello stesso. Queste ragioni hanno portato l’Italia a sottoscrivere i famosi accordi bilaterali e che hanno sempre fatto si che la stessa avesse un rapporto quasi reverenziale non per lo stato libico in se ma per il dittatore Gheddafi.

Non sono soltanto gli italiani però che hanno cercato di fare affari con la Libia. Per quanto riguarda la Gran Bretagna, nel 2004, per esempio, Toni Blair ha offerto in una tenda beduina quella che egli stesso a suo tempo chiamò “la mano dell’amicizia” a Gheddafi che portò ad uno sviluppo degli affari tra i due paesi. Così la BP, azienda molto vicina al governo, nel 2007 ha avviato un piano di investimenti, per la ricerca del petrolio, di circa 900 milioni di dollari. D’altro canto, la Libian Investment Authority ha acquistato una partecipazione del 3% nel gruppo editoriale Pearson, proprietario del Financial Times. A questo punto I francesi hanno cercato di non essere da meno, come riferisce Le Monde. Così Sarkozy nel 2007 annunciò di aver ottenuto contratti per 10 miliardi di euro.

Comunque sia, il nord Africa, da decenni ha un ruolo fondamentale nell'approvvigionamento energetico dell'Italia e non solo. In quell'area Eni è attiva, senza interruzioni, dagli anni '50. Un dato su tutti rende il quadro più chiaro. In Libia, oggi teatro degli scontri tra i sostenitori del colonnello Gheddafi e gli insorti, e in Egitto, Eni è il primo produttore internazionale di idrocarburi ed è presente, rispettivamente, dal 1959 e dal 1954. Più in generale, la produzione nell'Africa settentrionale nel 2009 è stata pari a 573mila barili di idrocarburi (petrolio e gas) al giorno (a cui si possono aggiungere i 360mila barili giornalieri prodotti in Angola, Congo e Nigeria), a fronte dei 1.769.000 prodotti in tutto il mondo. Nel 2010 la produzione ha raggiunto i 980mila barili in Africa e superato quota 1.800.000 nel mondo da quando si apprende da fonti Eni.

Il bottino del petrolio e dei gas naturali quindi costituisce un buon movente, per le problematiche energetiche chi investono i paesi più industrializzati. La situazione sembra presentare tuttavia aspetti più compositi. In primis la crisi del Maghreb, che ha fatto aumentare di molto il prezzo del greggio, generando apprensione nei governi europei che per decenni, in un quadro di stabilità strategica, avevano fatto affari con i regimi di Ben Ali, Mubarak e Gheddafi.

A questo punto è possibile, che almeno per ora, la situazione rimanga in stallo per un po’ di tempo. La risoluzione è molto chiara: “niente truppe a terra”. E niente truppe a terra vuol dire che Gheddafi sopravvive, perché non è possibile abbatterlo con gli aerei. A parte che non sarebbe possibile, visto che la risoluzione Onu è chiarissima: puoi bombardare solo in caso di intervento umanitario. E questo vuol dire, per adesso, tutelare Bengasi e la zona della Cirenaica.

Gli eventuali scenari futuri. Se la Russia, che si è astenuta finora dal conflitto, riuscisse ad entrare nel mercato libico? riuscendo ad ottenere concessioni per l’estrazione del petrolio a scapito dell’Eni? Allora per Italia potrebbe mettersi male, anche perché l’ex URSS ci passa una bella fetta di gas pari al 40%. Naturalmente chiariamo subito che nessuno impedirebbe all’Italia di avere petrolio, ma invece che pagarlo a noi stessi o ai libici, lo pagheremo ad altri, ovvero ai russi, ai francesi o altri ancora. In Pratica quei soldi che prima andavano all’Eni uscirebbero quindi dall’Italia rischiando di fare aumentare ulteriormente il prezzo dell’energia. E se invece fosse proprio la Francia a farci le scarpe? La Francia altra nazione interessata alla strategia economica in atto, è stata la prima a riconoscere gli oppositori e a richiedere la “no fly zone”, aspettandosi evidentemente qualcosa. Non è detto che vincano gli oppositori, certo, ma la maggior parte dei pozzi stanno nella regione Cirenaica, e se la Libia dovesse dividersi, e la Cirenaica diventare indipendente i francesi sarebbero di sicuro in pole position sempre a discapito dell’Eni.

L’Eni a questo punto, in un modo o nell’altro, potrebbe perdere parte dei contratti che ha con la Libia per due motivi. Il primo perché verrebbero rifatte le gare di appalto, anche se solo nel 2020, e Gazprom, ad esempio, potrebbe risultare più competitiva. In secondo luogo se cambia il regime, o dovesse presentarsi una situazione con più poteri, è anche possibile che quei contratti vengano rimessi in discussione molto prima.

Se invece vincesse Gheddafi? Le major occidentali del petrolio temono la nazionalizzazione in Libia. C'è il timore che le compagnie petrolifere siano prese di mira, specialmente se il loro paese ha partecipato agli attacchi aerei contro il rais.

La maggior parte delle grandi compagnie petrolifere mondiali infatti ha impianti produttivi in Libia. L'Eni è il maggiore investitore singolo. Sono presenti però anche la spagnola Repsol, la francese Total, la tedesca Winstershall (della Basf) e l'austriaca Omv. Shokri Ghanem, presidente della National Oil Corporation libica, ha avvertito che le compagnie occidentali che hanno rimpatriato il loro staff devono rimandare i loro dipendenti a lavorare in Libia, altrimenti rischiano che le nuove concessioni per gas e petrolio siano assegnate direttamente alle loro rivali di Cina, India e Brasile. I tre paesi, che con la Russia e la Germania, sono rimasti neutrali e si sono astenuti al voto della risoluzione Onu 1973.

L'Italia quindi si trova nella posizione di dover lavorare molto per mantenere aperte le opzioni in Libia al di là dell'esito del conflitto, poiché l'Italia ottiene dalla Libia il 25% del suo import di petrolio e il 10% di quello di gas, oltre ad avere progetti da miliardi di euro per infrastrutture e sicurezza. D'altra parte, l'Italia è il centro delle attività finanziarie della Libia in Europa.

Che fine farà l'Eni? Quanto all'Eni, come abbiamo visto, è il più grande operatore straniero in Libia per influenza e risorse. L'Ad di Eni, Paolo Scaroni, ha dichiarato che in Libia la produzione, in condizioni normali, è di circa «280mila barili, molti dei quali sono gas, mentre in questo momento se ne stanno producendo circa 120mila». E in relazione alle forniture e alla temporanea chiusura del gasdotto libico GreenStream, Scaroni ha detto che per ora non c'è alcun problema «perché sono state aumentate le forniture da Nord e da Sud»; tradotto vuol dire che non vi è una possibilità di previsione di quando e come le cose torneranno alla normalità.

Marzio Galeotti, professore presso l'Università degli studi di Milano e direttore del centro di ricerca sull'economia e la politica dell'energia e dell'ambiente dell'Università Bocconi, inoltre spiega che «La situazione libica è particolarmente delicata anche perché gran parte delle risorse naturali si trovano nelle zone limitrofe a Tripoli e a Bengasi, l'una controllata da Gheddafi, l'altra dagli insorti. Pertanto, qualora gli scontri dovessero protrarsi, le due fazioni potrebbero dividersi la gestione delle fonti energetiche, con il rischio di una modifica del flusso delle forniture che abbiamo conosciuto fino ad oggi»,

Che fine faranno i fondi? Oltre al non trascurabile problema della crisi petrolifera, il nostro Paese deve fare anche i conti con i fondi che potrebbero andare perduti. Gli effetti sarebbero devastanti, in una economia che, come ha asserito Scalfari, “è già in piena crisi di stagflation”.

Si tratta di investimenti consistenti, grandi appalti, forniture di materie prime e maxi-commesse che rischiano di restare congelati a lungo. O anche di finire in altre mani. Con ripercussioni consistenti sui bilanci delle società e sull'economia italiana. Ecco perché il governo italiano ritiene prioritario per il Paese partecipare a pieno titolo alla gestione del dopo-Gheddafi. 

Fino a poche settimane fa, sull'asse Tripoli-Roma, in entrambi i sensi di marcia, hanno viaggiato di fatto denaro e opportunità di sviluppo. E i legami economici sono andati ben oltre la vicinanza geografica. La Libia si colloca infatti al quinto posto nella graduatoria dei Paesi fornitori dell'Italia, con il 4,5 per cento sul totale delle nostre importazioni, mentre il nostro Paese rappresenta il primo esportatore, che ricopre circa il 17,5 per cento delle importazioni libiche, con un interscambio complessivo stimato nel 2010 di circa 12 miliardi di euro.

Unicredit. Sotto i riflettori, oltre all’Eni, c'è anche la partecipazione libica in Unicredit. Tra gli azionisti, infatti, ci sono la Central Bank of Libya (4,988%) e Libyan Investment Authority (2,594%). Sommando le due quote, la componente libica è di gran lunga il primo azionista, con oltre il 7,5%. Quota che, come tutte le altre detenute dai libici in società europee, è al momento congelata.

Finmeccanica. Lybian Investment Authority detiene anche una quota del 2,01 per cento in Finmeccanica. Grazie alla collegata Ansaldo Sts, la società guidata da Pierfrancesco Guarguaglini ha una buona presenza in Libia. Nel luglio del 2009, Finmeccanica e Libya Africa Investment Portfolio, il fondo di investimento posseduto da Lia, hanno costituito una joint venture paritetica per una cooperazione strategica nei settori dell'aerospazio, trasporti ed energia. Inoltre, Finmeccanica si è aggiudicata numerosi contratti in Libia attraverso le sue controllate, come Ansaldo Sts e Selex Sistemi Integrati. Nel campo elicotteristico, AgustaWestland ha messo in piedi un sistema industriale di manutenzione e assemblaggio tramite la Liatec. Si calcola che le commesse di Finmeccanica in Libia ammontino a circa 1 miliardo di euro nei settori dell'elicotteristica civile e ferroviario.

Impregilo. Altrettanto presente sul suolo libico è Impregilo. Quest’ultima è impegnata attraverso una società mista, partecipata dalla multinazionale italiana al 60% e al 40% da Libyan development investment. Impregilo ha in essere progetti nel settore costruzioni, come la Conference hall di Tripoli, la realizzazione di tre poli universitari e la progettazione e realizzazione di lavori infrastrutturali e di opere di urbanizzazione nelle città di Tripoli e Misurata. Si tratta di ordini che si aggirano, complessivamente, attorno al miliardo di euro.

"L' Autostrada dell'amicizia". Poi vi è la famosa Autostrada dell'amicizia. La maxi infrastruttura chiesta dal colonnello Gheddafi come riparazione per i danni subiti nel periodo coloniale. Con i suoi 1700 km, che dovrebbero attraversare la Libia da Rass Ajdir a Imsaad, ovvero dal confine con l'Egitto a quello con la Tunisia, è la più imponente e impegnativa infrastruttura stradale mai realizzata da aziende italiane, con tempi di lavoro stimati fino a vent'anni e una spesa di 3 miliardi di dollari. Al termine di una gara affidata a una commissione italo-libica, il raggruppamento di imprese costituito da Anas (capofila)- Progetti Europa & Global - Talsocotec si è aggiudicato la gara da 125,5 milioni di euro, bandita dall'ambasciata di Tripoli in Italia, per il servizio di 'advisor' per tutto il processo che condurrà alla costruzione dell'autostrada. Oggi, anche in questo caso, è tutto fermo.

La Juventus, Telecom e Alitalia, Edison e Grimaldi, Visa e Saipem. Altre società interessate da capitali libici sono la Juventus, di cui la Libyan arab foreign investment company detiene ancora una quota pari al 7,5%. Presenze minori, ma che avevano possibilità di forte crescita, risultano in Eni e Telecom. Lybian Post, con il 14,8%, è presente in Retelit, operatore di tlc specializzato nella fornitura di servizi a banda larga a enti e aziende. L'elenco delle imprese che fanno affari in Libia inoltre comprende anche Telecom e Alitalia, Edison e Grimaldi, Visa e Saipem.

Una nuova Somalia. E c'è ancorta un’altra ragione se l’Italia vive queste ore con grande preoccupazione: se i piani di Parigi e Londra non andassero in porto ci troveremmo con una nuova Somalia nel cortile di casa, eventualità catastrofica che avrebbe ricadute sulle nostre coste e sui nostri pregressi rapporti commerciali.

Per tutti questi motivi oggi l’Italia si trova nell'indesiderata e paradossale posizione di dover sperare innanzitutto nel successo pieno di un'operazione che vive anche nel ruolo di vittima; e poi, che in tutto ciò, nel post Gheddafi, riesca a farsi rispettare.

(foto: direttanews.it)