Cosa ci ha insegnato Rosarno?

di Chiara Matteazzi

A Nardò (Salento) la storia sembra ripetersi. I giornali non ne parlano, nel Salento ora è tempo di feste a bagni al mare. Ma c’è dell’altro. Ci sono i lavoratori stagionali nei campi di pomodori e angurie, e ci sono le loro proteste e le loro rivendicazioni. (Chiara Matteazzi

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Anche quest’anno sono arrivati da varie parti dell’Italia e dell’Africa numerosissimi braccianti, per questi ormai celebri “lavori” stagionali, se così li possiamo definire. Dopo Rosarno, o meglio dopo che i fatti di Rosarno sono finiti nei giornali, sembrava davvero che una pagina amara, fatta di illegalità, sfruttamento e umiliazione, si fosse chiusa per sempre. Non è stato così. Diverso il luogo, uguali le dinamiche. Il sistema di caporalato, lo sfruttamento dei migranti, le speculazioni inenarrabili. 

È proprio da questo sentimento di ingiustizia, un’ingiustizia che si ripete, che è nato uno sciopero per dire basta al “capo nero”, ai caporali che sfruttano questo meccanismo malato e che si arricchiscono sulle spalle di migranti costretti a lavori durissimi. Quello che sta succedendo nelle campagne di Nardò è sorprendente. È la prima volta infatti che si assiste a un tentativo concreto e strutturato di opporsi a un sistema che vige incontrastato da anni.

Tutto è nato qualche settimana fa, il 30 luglio per la precisione. Era una giornata come le altre, i migranti stavano raccogliendo pomodori per 4 euro a cassone, quando il caporale ha chiesto loro di svolgere un'altra mansione. I lavoratori hanno a quel punto chiesto un aumento del loro compenso, invano. Ed è stato allora che i migranti hanno deciso, di comune accordo, di lasciare il campo. La sorte li ha fatti incontrare nei campi, e ora li ha uniti nelle rivendicazioni. È stato con quell’atto, comune, condiviso e fortemente simbolico, che hanno trovato, uno nell’altro, la forza di reagire, di uscire allo scoperto, di cercare di interrompere questo sistema radicato nell’illegalità. 

Da quel giorno ad oggi, molte cose sono successe a Nardò. Si sono susseguite giornate di protesta, di sciopero, i campi sono rimasti vuoti, senza uomini a raccoglierne i frutti, con buona pace delle angurie e dei pomodori in balia del sole, anche loro vittime sacrificali di questa necessaria protesta. La masseria Boncuri, che ospita i braccianti di Nardò, li ha visti organizzarsi in assemblee autogestire i cui scopi erano e sono tuttora quello di ottenere un contratto vero, di avere a disposizione all’interno del campo medici e trasporti e di abolire il sistema di caporalato. Perché se la paga è misera, c’è da aggiungere il fatto che ad essa vanno poi sottratte le “mazzette” per far parte del gruppo di lavoro che viene formato ogni mattina e quelle per il trasporto nei campi.

A suon di proteste e presidi sotto la prefettura di Lecce, i braccianti sono riusciti a ottenere un incontro con il prefetto, che si è tenuto lunedì 8 agosto e i cui esiti sono stati definiti fallimentari. “Aleatorie” considerate le risposte delle autorità al problema. “Tutto continua come se niente fosse. I caporali continuano a ricattare, e noi siamo sfruttati come se la nostra protesta non fosse mai avvenuta. Non andremo via da qui fino a quando non avremo risposte concrete”, fanno sapere i braccianti. 

Forse siamo ancora lontani da risultati concreti, forse la risoluzione del problema non è esattamente dietro l’angolo. Ma c’è qualcosa di nuovo e rivoluzionario in questa protesta. C’è la voglia di giustizia e di diritti, e la disponibilità di pagarla a caro prezzo. La prova che anche nella disperazione, non bisogna cedere al ricatto e alle bassezze, perché si alimenta un sistema che prima o poi torna sempre indietro e danneggia anche te. Quando il sistema-qualsiasi sistema- è sbagliato, corrotto e illegale, non risparmia nessuno, persino chi l’ha ideato prima o poi ne subirà le conseguenze.

Stringere i denti per ottenere diritti, per una causa superiore, ecco quello che stanno facendo i braccianti di Nardò, per dimostrare che si può fare la differenza, se si vuole davvero un mondo differente.