Il libro. “Le mie prigioni”, la rifrazione artistica del lettore con l’autore

di Anna Laudati

Silvio Pellico offre alla storia un capolavoro dall’innata capacità di trasmettere la verità attraverso la lucidità delle proprie parole. Un romanzo nato per rubare la nostra identità di lettori e renderci un tutt’uno con la pena del suo creatore. (Vinicio Marchetti)

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Nel novembre del 1832 vede per la prima volta le stampe, un’opera che si rivelerà in seguito un’autentica pietra miliare della letteratura italiana: “Le mie prigioni” di Silvio Pellico.

Per gli argomenti trattati, un inserimento pressoché immediato nel filone realistico e imponente espansione etica, il libro s’impose rapidamente sia in Italia sia nell’Europa dell’Ottocento; ma Silvio Pellico non aveva nelle sue intenzioni né una denuncia antiaustriaca né una rappresaglia da genio letterario perseguitato, egli non desiderava altro che di riportare, attraverso una testimonianza scritta, la propria maturazione morale dovuta alle sofferenze patite in carcere.

E la forza più grande di quest’opera è senz’altro quella lucida e pacata trasposizione della verità. Un’oggettività d’emozioni che affonda la propria forza in ogni singolo lapillo dell’inchiostro che colora le sue pagine.

Leggere nell’anima di Le mie prigioni nel segreto dei propri pensieri può far piangere, può far pensare, può donarti lo sgradito peso delle galere direttamente sulle spalle ma, più di ogni altra cosa, ti rende consapevole dell’immortalità del suo autore; e non soltanto per la grandezza tecnica e artistica di un romanzo che gode dell’innaturale dono di rendere migliore chi lo legge, ma soprattutto perché rapisce il lettore al livello primordiale della persona.

Nel momento stesso in cui sfogliamo le pagine di Le mie prigioni perdiamo la nostra identità di lettori, e non siamo altro che tanti, migliaia nel corso dei secoli, Silvio Pellico...