"La Camorra è la società dei marginali che si organizza violentemente per raggiungere il benessere"

di Anna Laudati
Il giovane sociologo campano, Marcello Ravveduto, autore di “Napoli…Serenata Calibro 9”,  ci racconta come cambia la Camorra (di Francesco Enrico  Gentile) 

napoli_serenata_calibro_9.jpgA quando risale il tuo impegno anticamorra? Agli anni dei miei studi universitari. Nel 1992 con un gruppo di giovani provenienti da diverse parti di Italia fondammo il Coordinamento Libero Grassi per impegnarci civilmente nella lotta ai poteri criminali. Il gruppo campano nel 1994 decise di dare inizio alla prima esperienza regionale di associazionismo antiracket ed antiusura, coinvolgendo, non era mai accaduto prima, gli enti locali nell’assistenza alla vittime.

Secondo te in questi anni come è cambiato il fenomeno camorra? La camorra è la forma criminale più magmatica tra le mafie italiane. Un miscuglio di holding commerciali e gangsterismo urbano. Più che antistato è una società nella società. La società dei marginali che si organizza violentemente per raggiungere il benessere. Andrebbe studiata profondamente la modernizzazione di questa criminalità perché è l’unica che contiene in sé sia aspetti mafiosi, sia aspetti di violenza metropolitana assimilandola, per alcuni aspetti, alle bande giovanili delle grandi città americane sia del sud, sia del nord. La camorra. 

 

Nel tuo libro “Napoli…Serenata Calibro 9. Storia e immagini della camorra tra cinema, sceneggiata e neomelodici.” tu analizzi il nesso tra musica neo-melodica e fenomeni criminale. Quanto questo collegamento è forte e che forme assume? Dalla metà degli anni Settanta nei quartieri a rischio della città si è formata una “opinione pubblica” che considera la camorra un elemento “naturale” insostituibile e, in alcuni casi, irrinunciabile del vivere urbano. Una cultura omogenea ed escludente privata delle caratteristiche di promiscuità ed interclassismo tipiche della canzone classica napoletana e della sceneggiata. La marginalità culturale si è congiunta alla scarsa qualità degli interventi pubblici e al massiccio abusivismo edilizio trasformando Napoli in una abnorme città-regione. L’intero territorio circostante è stato piegato alle esigenze di un disordinato sviluppo metropolitano. Napoli è diventata un arcipelago. Ogni rione, quartiere o area submetropolitana vive per sè, come un isola autosufficiente, pur condividendo un’unità apparente. L’esito finale di questo processo è stato la formazione dei Quartieri Stato: “zone franche criminali” delimitanti i confini di una città illegittima, contrapposta alla città legittima ed oleografica della napoletanità. In tale contesto urbano è stato gioco facile per la camorra organizzare un sistema economico, sociale e culturale autonomo: se il boss garantisce reddito ed occupazione, se il killer difende l’ordine costituito, se i guagliuni ‘e miez ‘a via sono i lavoratori del “distretto criminale”, se i carcerati sono le vittime sacrificali di uno Stato disinteressato e nemico, se i pentiti, con le loro dichiarazioni, mettono in crisi ‘O Sistema, allora appare “logico” che ci siano autori disposti a decantarne le gesta, perché esiste un pubblico, direttamente o indirettamente coinvolto negli affari dei clan, disponibile ad ascoltarle. 

Come è cambiato in questi anni la percezione della camorra tra le giovani generazioni, soprattutto tra quelle più esposte all’influenza e al potere della sottocultura camorrista? La smania di apparire ha sempre contraddistinto i camorristi. Forse questa è una delle ragioni che li mette in sintonia con la generazione del Grande Fratello. Ma soprattutto nello spirito d’azione delle bande metropolitane si coglie il paradosso di una condizione psicologica, uno spirito morale, una sorta di lazzarismo contemporaneo che ha come unica ragione l’affermazione di sé. Ogni rapporto, d’amore o d’amicizia, è la misura di un dominio, di un possesso. La manifestazione di un potere personale sembra essere l’unica cosa per cui valga la pena vivere o morire. La conseguenza immediata di questa manifestazione è la necessità di esibirsi, rumoreggiare, vociare, prevaricare, aggredire senza motivo. È la vittoria di una mentalità violenta che considera il potere principio e fine di ogni relazione sociale, economica, civile, culturale. Per questo sono decine le canzoni neomelodiche che esaltano le azioni dei guaglioni ‘e miez ‘a via. Tutti uguali: hanno la stessa faccia cotta dalle lampade solari, gli stessi occhi vuoti, gli stessi volti inespressivi, le stesse scarpe (Silver Nike), gli stessi crani rasati o capelli fonati e scolpiti, le stesse basette, le stesse maglie Zara e gli stessi cappellini a visiera, gli stessi anellini d’oro ai lobi delle orecchie con la sola differenza per la grandezza del brillante (più è grande, più sei ‘bbuono). Parlano la stessa incomprensibile lingua. Allo stesso modo gesticolano e gridano (ma per loro è soltanto “parlare”). Hanno le stesse teste rincitrullite dalla televisione, non dal reality che già basterebbe, ma dalle tv dei neomelodici, scambiati per rappers in rivolta, salvo, poi, scoprire che sono il veicolo dell’infezione plebeo criminale.