Informa Cancro. Il servizio civile con AIMAC. Racconto di un'esperienza unica

di Anna Laudati

"Quanta umanità ho trovato in quelle persone, troppa per essere portata in un solo cuore. La loro forza mi metteva a dura prova, facendomi vergognare per tutte le mie stupide debolezze. Come faceva il loro animo a possedere tanta robustezza e il mio ad essere così fragile?". Oggi scrivo dell'esperienza che io stessa ho avuto la fortuna di vivere nei panni di volontaria in servizio civile, quando fui selezionata nel 2009 per occuparmi del progetto Amesci "Informa Cancro" presso l'associazione AIMAC, Associazione Italiana Malati di Cancro. (Caterina Ferrara)

a1 Ho sempre pensato che dare una mano significasse soprattutto avere mezzi: risorse, denaro, tempo. Poi, però, ho cambiato idea. Ogni giorno la stessa tratta mi portava fin lì. Secondo piano, edificio in fondo della SUN di Napoli. Il padiglione era l’ultimo come ultime erano spesso le speranze delle persone che si rivolgevano a me, mentre io mi auguravo che fosse per loro l’ultimo giorno di terapia.  

Persa nel vagone di ritorno a casa, la mente formulava inquieta l’identico pensiero: il cancro non è una malattia come le altre.  

Me lo ripetevano quotidianamente i “miei pazienti”, che solo a volte erano i malati, quasi sempre erano invece i loro parenti: madri, mariti, figli, mogli, cognati, amici intimi. Perché il cancro stravolge l’intero nucleo familiare, diventa la malattia di tutti, nessuno si salva, nessuno è vaccinato. Ed io, priva di affetti, mi interrogavo su come sarebbe stato se fosse toccato a me e come avrei tirato avanti senza quel sostegno. 

Ho sempre pensato che per dare una mano ci volessero altre cose. La ricerca, terapie personalizzate, alternative. Lo penso ancora. Ma di quest’ultime ho da lamentare un’enorme assenza: non puoi scegliere, non hai possibilità, solo una probabile e non definitiva soluzione. Perché lui - il cancro - non ti lascia mai, non ti lascia il pensiero, non ti lasciano i segni, non ti abbandona la paura. 

Quanta umanità ho trovato in quelle persone, troppa per essere portata in un solo cuore. La loro forza mi metteva a dura prova, facendomi vergognare per tutte le mie stupide debolezze. Come faceva il loro animo a possedere tanta robustezza e il mio ad essere così fragile? 

Li ricordo uno ad uno. Il “Signore dei quadrifogli” lo chiamavo così perché un giorno al mio arrivo mi fermò con una richiesta urgente. “Aprite e scegliete quello che volete!”. Mi parlava tenendo in mano un’agendina di vecchia data e mentre scandiva le ultime sillabe io già mi dicevo “quest’è matto …”. Accolsi la sua richiesta un po’ perplessa, ma aprendo e sfogliando a caso il libricino vi trovai per ciascuno di quei 365 fogli di carta, altrettanti quadrifogli verdi tutti custoditi lì. Lo conservo ancora gelosamente il mio e, ovviamente, mi portò fortuna.

Ricordo la maestra che per le sue visite di controllo sceglieva il suo unico giorno libero, una donna ligia al dovere, votata alla scuola e ai ragazzi. E, ancora, l’avvocatessa indignata per l’arroganza di certi medici che troppo spesso dimenticano che non lasciarsi coinvolgere non vuol dire mancare di umanità.

Ora, dopo molto tempo, ripenso a quando nella carrozza del treno ebbi modo di incontrare quella moglie che nei mesi precedenti mi pareva essersi rassegnata. Era felice, il volto illuminato, la sua tenacia era stata premiata. 

Ho cambiato idea perché a loro bastava il mio ascolto, il mio sorriso, il mio calore per sentirsi già meglio. Bastava il mio poco per non sentirsi soli. Questo lo facevo senza denaro, senza spendere troppo tempo e senza avere molte risorse. Io ero solo una volontaria.